domenica 30 dicembre 2007

Tenzin Gyatso

Tenzin Gyatso - nato Lhamo Dondrub - (Taktser, 6 luglio 1935) è un religioso tibetano. È il XIV Dalai Lama, premio Nobel per la pace nel 1989 ed esponente del pacifismo.
Vive dal 1959 in esilio in India, a Dharamsala (Himachal Pradesh), con un seguito di 120.000 tibetani in seno ai quali ha costituito il governo tibetano in esilio.

Nato nel 1935 in un villaggio nel nord est del Tibet, all'età di due anni venne riconosciuto come reincarnazione del XIII Dalai Lama Thubten Gyatso. Per effetto di ciò fu proclamato Dalai Lama e ribattezzato Jetsun Jamphel Ngawang Lobsang Yeshe Tenzin Gyatso, ovvero Sacro Signore, Gloria gentile, Compassionevole, Difensore della fede, Oceano di saggezza.

I buddhisti tibetani si riferiscono a lui come Yeshe Norbu ("la gemma che realizza i desideri") o semplicemente Kundun ("la Presenza"). Nel mondo occidentale è spesso chiamato Sua Santità il Dalai Lama.
Tenzin Gyatso cominciò la sua educazione all'età di sei anni. A venticinque anni (nel 1959) discusse il suo esame finale nel Tempio Jokhan a Lhasa, durante la festa annuale Monlam. Superò l'esame con onore e gli venne conferito il diploma Lharampa, il titolo di studio più alto.

Oltre ad essere la guida spirituale più influente del buddhismo tibetano, il Dalai Lama è anche per tradizione il capo di stato del Tibet con potere decisionale. Il 17 novembre 1950 Tenzin Gyatso venne incoronato come guida temporanea del Tibet ma fu in grado di governare il paese per poco tempo, dato che nell'ottobre dello stesso anno l'esercito della Repubblica Popolare Cinese invase il suo Paese.

Nel 1954 il Dalai Lama fu a Pechino per negoziati con i capi cinesi Mao Zedong, Zhou Enlai e Deng Xiaoping, che si conclusero senza successo.

Dopo un fallito tentativo (aiutato dagli USA) di rivolta contro la Cina, il Dalai Lama fuggì il 17 marzo 1959, arrivò in India il 31 e si rifugiò a Dharamsala, dove risiede tuttora con il governo tibetano in esilio.

Nel 1989 Tenzin Gyatso ricevette il premio Nobel per la pace. Il 14 maggio 1995 il Dalai Lama proclamò Gedhun Nyima undicesima reincarnazione del Panchen Lama, ma la Cina rapì il bambino e nominò come reincarnazione un altro bambino Gyancain Norbu. Gedhun Choekyi Nyima (oggi sedicenne) è tuttora prigioniero della Cina.

Tenzin Gyatso è il primo Dalai Lama che si è trovato a dover operare dall'estero e contemporaneamente il primo che ha visitato le nazioni occidentali cercando di promuovere la sua causa e di far conoscere al mondo i principi del buddhismo.

Il Dalai Lama parla l'inglese ed ha ottenuto la simpatia del mondo occidentale per la sua battaglia in nome dell'autodeterminazione del popolo tibetano. Molte celebrità di Hollywood (in particolare Richard Gere) lo hanno pubblicamente sostenuto.

Tenzin Gyatso è stato più volte "denunciato" dalla Cina come fautore dell'indipendenza tibetana mentre la sua posizione politica attuale è che non sia obbligatoria l'indipendenza totale del Tibet, ma solo è necessaria la sua autonomia negli affari interni (autodeterminazione), lasciando la gestione della difesa e degli affari esteri alla Cina.

Anche se non in modo continuato, ci sono stati colloqui fra il governo tibetano in esilio e la Cina ma mentre quest'ultimo desidera soprattutto discutere dello stato del Tibet all'interno della Cina, la repubblica popolare cinese vuole limitare gli accordi alle condizioni del ritorno del Dalai Lama in Tibet.

Il 18 aprile 2005 l'autorevole rivista Time Magazine ha inserito il Dalai Lama tra le 100 personalità più influenti del pianeta.

Il 14 ottobre 2006, presso l'Aula Magna della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli studi Roma Tre, Tenzin Gyatzo ha ricevuto la laurea honoris causa in biologia, come riconoscimento per il suo interesse e il suo impegno per la scienza e in particolare per le discipline neurobiologiche.

Il 16 ottobre 2007 è ricevuto dal Congresso degli Stati Uniti che lo ha insignito della più alta onorificienza per i civili, la Medaglia d'Oro. Questo fatto ha provocato accese proteste da parte del governo cinese.

Nella prima metà del dicembre 2007 ha compiuto un viaggio in Italia: oggetto di critiche è stato il fatto che nè il capo della chiesa cattolica, papa Benedetto XVI, nè il presidente del Consiglio dei ministri Romano Prodi, abbiano ricevuto ufficialmente il Dalai Lama, per paura di aprire l'ennesimo incidente diplomatico con la Cina. Il religioso è stato comunque ricevuto dal presidente della Camera, Fausto Bertinotti, da esponenti del clero cattolico ed esponenti di altre religioni.

Il 10 dicembre 1989 venne conferito a Tenzin Gyatso il Premio Nobel per la pace.
In un comunicato il Comitato annunciò le motivazioni:

« Il Comitato norvegese per il Nobel ha deciso di attribuire il Nobel per la pace per il 1989 al 14° Dalai Lama, Tenzin Gyatso, leader politico e religioso del popolo tibetano. Il Comitato desidera sottolineare il fatto che il Dalai Lama nella sua lotta per la liberazione del Tibet ha sempre e coerentemente rifiutato l'uso della violenza, preferendo ricercare soluzioni pacifiche basate sulla tolleranza ed il rispetto reciproco, per preservare il retaggio storico e culturale del Suo popolo. Il Dalai Lama ha sviluppato la propria filosofia di pace a partire da un reverente rispetto per tutto ciò che è vivo, basandosi sul concetto della responsabilità universale che unisce tutta l'umanità al pari della natura. Il Comitato ritiene che Sua Santità abbia avanzato proposte costruttive e lungimiranti per la soluzione dei conflitti internazionali, e per affrontare il problema dei diritti umani e le questioni ambientali globali. »

Il Dalai Lama, alla cerimonia di consegna del prestigioso riconoscimento, dichiarò:

« Mi considero solo un semplice monaco buddhista. Niente di più, niente di meno. Quello che è importante non sono io ma il popolo tibetano. Questo premio rappresenta un incoraggiamento per i sei milioni di abitanti del Tibet che da oltre quarant'anni stanno vivendo il più doloroso periodo della propria storia. Nonostante ciò la determinazione della gente, il suo legame con i valori spirituali e la pratica della non violenza rimangono inalterati. Il premio Nobel è un riconoscimento alla fede e alla perseveranza del popolo tibetano. »


« Prima di addormentarmi, penso sempre per qualche minuto. Penso alla gente in Tibet. A quello che sta soffrendo, al suo dolore. E mentalmente recito una preghiera di ringraziamento per essere libero. Un rifugiato, ma libero. Che può parlare per il suo popolo e cercare di alleviarne le sofferenze. »


venerdì 28 dicembre 2007

La dinastia Bhutto

Una famiglia impegnata, i Bhutto. Cha ha ricevuto giudizi controversi. E un comune, tragico, destino. Benazir è la terza componente della famiglia impegnata nella vita pubblica e la quarta uccisa in circostanze non acclarate. Il padre e i due fratelli avevano patito la stessa sorte: il primo giustiziato pubblicamente, gli altri misteriosamente assassinati. Un destino simile alla grande dinastia dei vicini hindu, i Nehru – Ghandi. Con la madre Indira e il figlio Rajiv uccisi da estremisti di minoranze anti hindu. Famiglia di credo Sciita, riusciva ad attrarre voti anche dalle comunità Sunnite come pure da gente di confessioni religiose diverse.

Zulfiqar Ali Bhutto, capostipite e padre della candidata uccisa a Rawalpindi da un kamikaze alla fine di un comizio, era l'uomo che aveva definitivamente dato l'attuale forma al Partito Popolare. Negli anni '70 era stato un premier molto seguito, con riforme sociali dal sapore laburista, uno dei pochi primi ministri dall'indipendenza del Pakistan a non vestire la casacca militare. E' stato impiccato nel 1979 dall'allora dittatore militare, generale Zia Ul Haq. A motivare le pena capitale una pretestuosa accusa di ''tradimento della patria''.

Shanhawaz, il fratello più amato e più pacato della famiglia, venne trovato ucciso da una pistola mai ritrovata, nella sua villa in Costa azzurra nel 1985. Ma il predestinato a guidare il Pakistan sembrava il maggiore, Murtaza. Era scappato in esilio in Afghanistan, ospite dell'allora governo comunista, nel 1979, all'uccisione del padre. Nel suo nome (El Zulfiqar, come il genitore) aveva fondato un partito, con il quale aveva vinto le elezioni del 1993 dall'esilio. Era rientrato e sembrava destinato a guidare il paese. Fin a quando, dopo un comizio, il suo cuore non incontrò una pallottola, rimasta senza mandante, nel 1996.

Benazir nasce nel 1953 nella provincia di Sindh e viene destinata a studi da leader politica, quando frequenta le facoltà di economia e Scienze politiche ad Harvard e Oxford. Aveva sempre dichiarato di non volersi occupare di politica, forse intuendo quale sarebbe stato il suo destino. La sua fedeltà al padre era indiscutibile, tanto da costarle cinque anni di fila di carcere inflittole dalla dittatura, quando nel 1977 i militari condannarono Zulfiqar alla pena capitale. Pena poi eseguita a due anni di distanza. Era stata comunque costretta dalla moria familiare ad accettare la carica di primo ministro ben due volte, dal 1988 al '90 e dal '93 al '96. Come Indira Gandhi era stata la prima donna premier in assoluto a capo di una nazione democraticamente eletta, Benazir è stata la prima donna nel pianeta a cui i cittadini di un paese musulmano hanno affidato la guida di un Governo. La sua autorità morale alla fine degli anni '80 come donna leader era in costante ascesa. Aveva fondato il Ppp in esilio a Londra, fino al suo rientro trionfale nel 1986. L'uccisione del dittatore Zia in un misterioso incidente aereo nel 1988 le spianò la strada verso il premierato. Ma gli anni '90 la attendevano con un risvolto molto più mondano. E amaro.

Nel corso dei suoi due premierati sono state queste le accuse con le quali i militari alla presidenza la rimossero dal suo incarico. Nella sua ombra s'è sempre mosso, lasciando tracce sospette, il marito Asif Zardari, anch'egli nato in una dinastia imprenditoriale pachistana di primo piano. Ma da brava moglie lei lo ha sempre difeso dalle accuse di aver manipolato diversi appalti pubblici per l'acquisto di armamenti, di jet, come di apparecchi medici. Ma nessuno dei 18 procedimenti per corruzione e lucro sui beni pubblici hanno portato ad una condanna definitiva in una decade di processi contro la coppia da premierato. Zafari è stato però trattenuto nel Paese in attesa di giudizio fino al 2004, dopo otto anni tra prigione e domiciliari.

Intanto Benazir lo aveva preceduto con i tre figli nell'esilio dorato di Dubai, già fin dal 1999, quando l'atmosfera per lei e il suo nemico-amico Navaz Sharif (oppositore dei generali all'interno della dominante Lega dei Musulmani) si era fatta troppo pesante sotto il dittatore Musharraf. Anche lei era stata implicata in cinque dei processi per corruzione in cui il marito era il principale accusato: il più grave riguardava una fornitura all'aviazione per una quindicina di F-16. Benazir aveva sempre rimandato al mittente le accuse, e non era mai stata condannata. Nel corso dell'ultimo procedimento, Benazir era stata condannata per non essere comparsa in aula. La corte Suprema in grado definitivo cassò il giudizio. Alcune registrazioni pirata in seguito mostrarono incontri segreti tra i giudici che la condannarono e gli alleati politici più vicini all'allora presidente Sharif. Sembra che il leader della Lega dei Musulmani avesse provato a convincere i giudici a condannarla per eliminare la sua concorrente più amata dal popolo. I suoi guai giudiziari avevano anche valicato i confini nazionali: nel 2004 aveva fatto ricorso in appello a Ginevra avverso una sentenza che la condannava per riciclaggio di denaro nei suoi conti svizzeri.

Negli ultimi mesi, mentre le critiche ai sistemi dittatoriali di Musharraf montavano tra i pachistani, i suoi appelli per un governo democratico acquistavano sempre più appeal e venivano ripetuti dai media indipendenti. A inizio ottobre arrivò l'amnistia assoluta per tutte le accuse di corruzione, che completò il tassello per il suo rientro. Nella settimana precedente era arrivato l'accordo (durato il breve volgere d'un mese) col dittatore Musharraf, per dividere il potere e liberare il Pakistan dalla presenza degli estremisti islamici: al dittatore un nuovo mandato presidenziale, a patto di smettere la divisa, e per Benazir la possibilità di rientrare e concorrere ( e vincere, sicuramente) un terzo mandato da prima Ministra.
La fine dell'esilio era prevista per il 18 ottobre, ma nel corteo di 300mila persone che la scortava festosamente a Karachi, dove si trova la villa di famiglia, ci furono almeno 130 morti quando due kamikaze si lanciarono contro il bus che la scortava in parata trionfale verso un monumento importante per i pachistani. Benazir allora si salvò con solo qualche contusione. Solo 20 giorni prima aveva giurato guerra ai talebani, dichiarando alla tv Bbc in esclusiva che “ricorrerei anche all'aiuto degli Usa pur di liberarmi dello Sceicco del Terrore (Osama bin Laden, che pare si nasconda nelle montagne del Waziristan dal 1999), ma potrei decidere di agire anche da sola, se fossi alla guida del Pakistan”. Forse la dichiarazione che l'ha persa per sempre.


(Gianluca Ursini)

venerdì 21 dicembre 2007

Le donne di Khan Younis

Scendendo verso il sud della Striscia di Gaza, prima di Rafah, vicino al confine egiziano, c'è Khan Younis. È la seconda città della Striscia e probabilmente la più conservatrice. Qui le donne che portano lo hijab sono la normalità, così come gli uomini con le barbe incolte. Al di fuori di questa normalità, c’è sicuramente Majda, 38 anni, master a Londra in antropologia, che in un territorio chiuso e tradizionalista come questo si è inventata l’associazione “Libero pensiero”, per aiutare le donne a prendere consapevolezza dei loro diritti.

Majda gira senza velo, in jeans e maglietta, non per sfida, semplicemente per un diverso modo di vivere il proprio essere donna. “Le violenze domestiche in questa zona sono all’ordine del giorno - spiega alla delegazione del movimento Donne in nero, giunta a casa sua - gli uomini non lavorano, stanno a casa, specie dall’inizio dell’assedio. Mancano le sigarette, accumulano rabbia, diventano aggressivi. La nostra associazione cerca di offrire alle donne che vivono situazioni difficili in famiglia un appoggio dal punto di vista psicologico e giuridico, ma in questa fase ha assunto priorità l’emergenza economica, quindi ad esempio ci viene chiesto vestiario invernale per i bambini, anche perchè qui le case non sono riscaldate. L’emergenza creata dall’assedio e dall’embargo imposto alla Striscia da Israele ha portato ai tagli dell’erogazione elettrica, così ogni tanto se ne va la luce (lo verifichiamo personalmente due volte a casa di Majda), di solito due volte al giorno per qualche decina di minuti, altre volte per dieci ore. Passi per chi è a casa, ma negli uffici, negli ospedali, in tutte le altre attività risulta veramente difficile andare avanti”.

“Le donne, specialmente nel sud della Striscia, non hanno la possibilità di esprimersi. Noi lavoriamo sia con loro che con i bambini, spesso vittime anche loro di violenza in casa, a scuola o in strada. Crediamo che, se cresceranno con dignità e con una cultura più aperta, riusciranno a costruire una società migliore di quanto non siamo riusciti a fare noi. Naturalmente nella nostra azione troviamo molti uomini che non vogliono l'emancipazione femminile. Siamo state, personalmente e come struttura, vittime di atti intimidatori, ma noi proseguiamo nel nostro percorso. Cerchiamo di far capire alle donne che è un loro diritto avere propri spazi per riunirsi, giocare, fare teatro, ballare o avere la possibilità di vedere un dottore, un avvocato. Ogni mese ne vediamo in tutto 650. La maggior parte vengono qui, le altre le raggiungiamo noi, a causa dei trasporti costosi o dei mariti che impediscono loro di uscire”.

"Tra i casi più frequenti di difficoltà ci sono i matrimoni delle giovanissime: casi di adolescenti che avevano mal di pancia e poi si scopre che stavano nascondendo una maternità. A volte ci sono abusi anche da parte di componenti di famiglie più agiate che sostengono quelle più povere e che, con quella scusa, approfittano delle giovani donne. Una volta mandavamo i casi più difficili nell’unico centro che ha delle case famiglia, a Betlemme, ma adesso uscire dalla Striscia è praticamente impossibile. Ci sono situazioni come quella di una donna uccisa perché, secondo i pettegolezzi di qualcuno, aveva avuto un figlio fuori dal matrimonio, salvo poi venire a sapere che era una bugia. Aveva solo 22 anni. La polizia, se vuoi denunciare la cosa, non ti ascolta. Inoltre quella di Hamas è tutta corrotta. E poi come si fa a denunciare un crimine a una polizia illegale che ha preso il potere con la forza? Non voglio demonizzare Hamas, anzi, il primo anno in cui è stato al potere abbiamo collaborato, ma da giugno la situazione è cambiata. Ci sono uccisioni tutti i giorni. C’è una sorta di coprifuoco, per la strada dopo il tramonto non c'è quasi nessuno, i negozi chiudono presto, mentre prima restavano aperti fino all’una di notte”.


(Milena Nebbia)

mercoledì 19 dicembre 2007

Eccoli qui, gli Stati canaglia

Finalmente, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, è riuscita a fare un timido e piccolo passo contro la pena di morte. Ieri, con 104 voti a favore, 29 astensioni e 54 voti contrari, è stata approvata una risoluzione che chiede agli stati membri una moratoria della pena capitale.
Non quell'enorme risultato di cui le istituzioni italiane, tra i promotori del voto, adesso si vantano. Non è una legge, non è vincolante. Nella pratica, non sposta nulla.
Ma è pure un importante risultato "culturale", e un risultato politico: non capita spesso che i padroni del mondo siano messi in minoranza nelle Nazioni Unite.

Ma il risultato più importante ottenuto dal voto di ieri, e di certo involontariamente da parte dei nostri governanti, è quello di avere messo ben in risalto quali siano davvero gli Stati canaglia. Quelli che davvero si meritano questo epiteto. Vediamoli, questi Stati. Tutti insieme appassionatamente hanno scelto di dire un "no" fortissimo e chiarissimo alla civiltà. C'è la Cina, tra questi stati. Un sesto della popolazione mondiale governato da uno Stato oppressivo, violento e autoritario che sempre più sta espandendo i tentacoli della sua economia un po' pirata e un po' capitalista in ogni parte del mondo. C'è il Sudan, in cui il valore dei diritti umani e della vita umana è reso palese dalla vicenda del Darfur. C'è l'Iran, in cui si viene ammazzati dallo Stato solo perché si è omosessuali, o se si va contro la rigidissima "legge morale" imposta dal Presidente. C'é la Siria, che ha più dissidenti in carcere che attivisti politici per le strade. E ci sono gli Stati Uniti, che vanno in giro esportando democrazia e massacrando migliaia di civili sotto le loro intelligentissime bombe. Ma votano contro una semplice richiesta di moratoria per la pena di morte. Si ergono a paladini del bene, e sono i più potenti di tutti. Per questo sono anche i più canaglia tra gli Stati canaglia.

(Maso Notarianni)

martedì 11 dicembre 2007

In fuga per la vita

La giornalista Natalia Petrova è in pericolo. Ha parlato troppo. Ha filmato troppo. Ha denunciato la guerra in Cecenia, in Abkhazia, in Nagorno-Karabakh. Ha criticato Putin e raccontato la rivolta dei pensionati russi. Per questo, il 6 settembre scorso, tre uomini in abiti civili hanno fatto irruzione nella sua casa di Kazan, repubblica del Tatarstan, e l'hanno malmenata. Lei e le sue bambine, due gemelle di 10 anni. A una di loro è stato rotto un dente.

Mentre l'anziana madre, terrorizzata, si nascondeva in giardino, il padre, Gennady Petrov, 87enne ex-colonnello dell'Armata Rossa, faceva scudo alla figlia con il suo corpo. Invano. Natalia è stata ammanettata e trascinata via dopo essere stata ridotta in uno stato di semi-incoscienza per le botte. Ha trascorso la notte in commissariato. Poi è stata sbattuta fuori, mezza morta. Con le forze residue, è tornata a casa. Ha preso le bambine, abbracciato i genitori ed è fuggita via. Adesso è nascosta da qualche parte a Mosca. Nessuno sa dove sia, salvo alcuni colleghi. Al padre, recatosi un mese dopo l'irruzione al commissariato di Kazan per chiedere spiegazioni, è stato risposto dal capo della polizia, tale Vyacheslav Prokofyev: "Tua figlia ha parlato troppo. Adesso è ricercata, su di lei pende un mandato di arresto internazionale. Di lei possiamo fare ciò che vogliamo".

Non è per caso che il padre di Natalia si recò da Prokofyev. Nell'agosto 2005, a Kazan, si tenne un summit tra Putin, Nazarbayev (presidente del Kazakistan), Lukashenko (presidente-dittatore della Bielorussia) e Yushenko (presidente ucraino). Natalia fu accreditata come giornalista per l'agenzia 'Eurasia'. Mentre si recava in macchina verso il centro stampa fu fermata da alcuni uomini in borghese e 'invitata' a entrare nella loro auto. Al suo rifiuto, gli uomini chiamarono il loro capo, che intimò a Natalia di obbedire, rifiutandosi di spiegare le ragioni del fermo, ma fornendo le proprie generalità. Era Prokofyev, capo del distretto di polizia della capitale. Il 6 settembre, il giorno dell'aggressione, Natalia udì quella stessa voce da una delle ricetrasmittenti degli uomini che erano venuti a prenderla.
"Di lei possiamo fare ciò che vogliamo", aveva risposto Prokofyev al padre della giornalista. Di lei, gli apparati repressivi ex-sovietici (meglio diremmo sovietici, dati i metodi totalitari per i quali, ogni giorno di più, dimostrano una nostalgica e morbosa inclinazione) non potranno fare nulla, finchè Natalia rimarrà alla macchia. Ma la mano del regime è lunga. E ha la memoria lunga. Non è solo la vita di Natalia ad essere in pericolo. Il 2 dicembre scorso, data delle elezioni per il rinnovo del Parlamento russo, i genitori di Natalia, Gennady Petrov e la moglie Nina Petrova, sono stati arrestati mentre si recavano alle urne. La coppia è stata accusata di diffamazione per aver denunciato le violenze del 6 settembre.

Andrej Mironov, membro dell'organizzazione per i diritti umani 'Memorial', ha conosciuto Natalia durante la prima guerra cecena (1994-1996). Ha spiegato che il lavoro della giornalista-regista non si limitava alla registrazione filmata degli eventi: "Natalia aiutava i feriti, li curava. Non posso che dire tutto il bene possibile di lei. Natalia ha fatto ciò che la Politkovskaya aveva fatto nella seconda guerra cecena. Entrambe hanno avuto uno spirito compassionevole, nell'affrontare la tragedia della guerra, specialmente per quanto riguarda i bambini. Hanno visto la guerra con l'occhio delle madri. Natalia aveva due bimbe piccole durante la prima guerra cecena. Così come Anna, durante la seconda". Natalia riuscì a far uscire 19 prigionieri dalla Cecenia. Fu la prima a indagare le circostanze della morte di Nadejda Chaikova, giornalista della 'Obshaya Gazeta' uccisa nel marzo del '96. Abbiamo chiesto a Mironov se sia possibile intervistare Natalia, o visitarla nella sua residenza segreta. "E' troppo pericoloso. Non può esporsi al pubblico. In nessun modo".

Natalia Petrova ha 48 anni. Ha realizzato tre documentari dal titolo: "Abkhazia mon amour", "I bambini del Karabakh" e "L'antica terra dei ceceni". Quest'ultimo, nel 1997, ha vinto il Grand Prix dell'Accademia cinematografica tedesca. Per chi chiede giustizia per Anna Politkovskaya una nuova battaglia è cominciata. Una battaglia che va combatttuta e vinta prima che sia troppo tardi.


(Luca Galassi)

domenica 9 dicembre 2007

Pierangelo Bertoli: a muso duro

Pierangelo Bertoli nato a Sassuolo (MO) il 5 novembre 1942 e morto a Modena il 7 ottobre 2002 è stato un cantautore italiano.

Colpito da bambino dalla poliomielite che gli compromise per sempre l'uso delle gambe, costringendolo a vivere e a muoversi su una sedia a rotelle, aveva esordito discograficamente nel 1976 con il 33 giri "Eppure soffia". Il 1977 lo vede pubblicare "Il centro del fiume" e l'anno successivo un disco di canzoni in dialetto, "S'at ven in ment". Con a "muso duro", nel 1979, Bertoli realizza il suo primo manifesto poetico, ma è "Certi momenti", nel 1981, a portarlo in classifica, grazie anche al successo radiofonico di "Pescatore", un brano cantato in duetto con Fiorella Mannoia.

Nel 1986 celebrò i dieci anni di carriera con "Studio & Live", un doppio album antologico registrato per metà in studio e per metà in concerto. Nel 1987 nasce il progetto dell'album "Canzoni d'autore" un omaggio a cantautori vecchi e nuovi della scena italiana. "Tra me e me", nel 1988, e "Sedia elettrica", nel 1989, chiudono simbolicamente un periodo artistico, insieme allo spot televisivo "Lega per l'emancipazione dell'handicappato", a cui Bertoli partecipa come attore, che vince il Telegatto di Tv Sorrisi e Canzoni.

Il 1990 lo vede pubblicare l'album "Oracoli", che costituisce a suo modo un momento di partenza, e il cui singolo "Chiama piano", è cantato in duetto con Fabio Concato. Il 1991 si apre per Bertoli con una decisione coraggiosa: quella di prendere parte al Festival di Sanremo (vi è poi tornato anche nel 1992), una manifestazione per molti versi lontanissima dalla linea ideologica ed artistica che ha sempre guidato l'attività del cantautore, contrario alla progressiva esaltazione degli aspetti edonistici che la musica commerciale andava sempre più assumendo.

In quell'occasione, invece, l'obiettivo di Bertoli era ben preciso: far conoscere dal palcoscenico più popolare della canzone italiana un brano inusuale e suggestivo, "Spunta la luna dal monte", presentandolo insieme al gruppo sardo dei Tazenda, in un'ottica di recupero delle tradizioni folcloristiche ed etniche in un momento in cui questo tipo di discorso artistico non era ancora diventato banalmente di moda.

Quasi a sorpresa, arrivano un lusinghiero piazzamento nella classifica finale e il grande successo di classifica. "Spunta la luna dal monte" intitola poi un album che raccoglie il meglio della produzione recente del musicista di Sassuolo e che è uno degli album più venduti della musica italiana, tanto da ricevere il disco di platino.

Tra gli altri suoi successi "Sera di Gallipoli" e "Per dirti t'amo" (1976), "Maddalena" (1984) e "Una strada" (1989).
Il cantante e autore aveva contribuito anche al lancio del conterraneo Luciano Ligabue.

Tra le canzoni più famose e più belle si ricordano: "Eppure soffia", uno tra i primi esempi di canzone attenta ai temi dell'ecologismo, "Certi momenti", in cui Bertoli si schiera manifestamente perché le donne abbiano la possibilità di abortire, "Il centro del fiume", un metaforico e poetico confronto fra la generazione impegnata e quella successiva, oltre alle già citate "A muso duro", una riflessione in chiave autobiografica sul ruolo civile del cantautore, e "Filastrocca a motore".

Lo stile di Bertoli si contraddistingue per la sua immediatezza, nonché per i mai banali echi poetici che fanno della sua opera un esempio limpido della bontà della prima canzone d'autore italiana che ha ospitato artisti come Fabrizio De André, Francesco Guccini, Paolo Conte, Giorgio Gaber, Francesco De Gregori.

Molte volte nelle canzoni canta contro la guerra o a favore dei più deboli. Nonostante gli spunti politici di molti testi, l'impegno di Bertoli si svolse principalmente sul piano civile.

Bertoli ha inoltre cantato molte canzoni in dialetto sassolese, prima raccogliendole in un CD (Sat vein in meint) e poi in altri album. Con tale operazione ha dimostrato coraggio, dato che questo dialetto risulta incomprensibile già a venti chilometri di distanza dal paese natale del cantautore e conta, quindi, un numero minimo di parlanti. Eppure, proprio in canzoni come "Prega Crest" (Prega nostro signore),"La bala" (dove "bala" significa, con doppio senso, sia "bugia" sia "ubriacatura"), è possibile cogliere in Bertoli una voce genuina della sua terra, "dura e pura" come si suol dire del popolo emiliano.

Poco prima di morire, Pierangelo Bertoli era ricoverato nel Policlinico della sua città, dove si era sottoposto ad un periodo di cure. Sposato con la moglie Bruna, una donna straordinaria che lo ha sempre sostenuto e guidato, ha avuto tre figli, Emiliano, Petra (alla cui nascita Bertoli aveva dedicato una canzone col suo nome) e Alberto, anche lui cantante.

Molto legato alla sua terra (il fratello gestisce un famoso ristorante a Sestola, sull'Appennino) era spesso impegnato in iniziative di solidarietà e beneficenza (aveva cantato anche per i detenuti del carcere di Sant'Anna a Modena e nella città estense nel giugno precedente aveva partecipato al Festival della canzone dialettale esibendosi in diversi brani in modenese.). Tra i suoi amici più cari c'era padre Sebastiano Bernardini, il cappuccino vicino alla Nazionale cantanti.

L'ultimo album, 301 guerre fa (composto da inediti e vecchie canzoni), è uscito poco prima della morte, mentre canzoni, scritte con la collaborazione del figlio (ma anche di Ligabue), non furono mai incise da Bertoli, nonostante fossero pronte, a causa della malattia del cantautore e della sua scomparsa.

Il 28 aprile 2006, a cura di Alberto, è uscita una raccolta, "Parole di rabbia", pensieri d'amore con un inedito," Adesso" (registrato nel 1990), ma pare che l'artista emiliano abbia lasciato altre canzoni incise precedentemente e mai pubblicate.

« Canterò le mie canzoni per la strada
ed affronterò la vita a muso duro
un guerriero senza patria e senza spada
con un piede nel passato
e lo sguardo dritto e aperto nel futuro »

giovedì 6 dicembre 2007

Siamo scimpanzé cannibali

Da un articolo di Jane Goodall (etologa e antropologa britannica)

"Quando cominciai le mie ricerche sugli scimpanzé nel 1960, non avrei mai immaginato che 40 anni dopo sarebbero ancora continuate in modo tanto impetuoso. E invece gli studi al «Gombe National Park» proseguono ininterrotti, oggi con un team di scienziati e di assistenti, perlopiù tanzaniani. E proprio grazie a questo tipo di ricerche di lungo termine ora sappiamo che gli scimpanzé sono molto simili a noi, sia dal punto di vista biologico sia comportamentale.

Gli scimpanzé possono vivere per oltre 60 anni in cattività, sebbene allo stato selvaggio non superino i 45-50. Dimostrano una prolungata dipendenza dalla madre, poppando al seno, dormendo nelle sue braccia e giocando sulla sua schiena fino all’età di cinque anni. Si sviluppano legami forti, intensamente affettivi, tra i membri della stessa famiglia e durano tutta la vita.

L’anatomia del cervello dello scimpanzé e dell’essere umano è simile e gli scimpanzé dimostrano capacità intellettuali che un tempo si pensava fossero una nostra prerogativa. Dimostrano, inoltre, emozioni simili o identiche a quelle che definiamo felicità, tristezza, paura, dolore. Gli scimpanzé, poi, sono anche capaci di comportamenti altruistici. Un esempio toccante è la storia di Mel, che ha perso la madre quando aveva tre anni e non aveva fratelli o sorelle che potessero prendersi cura di lei. Incredibilmente, un maschio adolescente della comunità, Spindle, l’ha «adottata». Spindle portava a spasso Mel, condivideva con lei il suo cibo e la riportava al nido ogni sera. Fatto ancora più incredibile, proteggeva Mel dai maschi più anziani, rischiando anche di essere preso a botte, cosa che in effetti è successa.

E come gli esseri umani sono capaci delle peggiori brutalità così lo sono gli scimpanzé. Abbiamo assistito ad attacchi di tipo cannibalistico contro alcuni piccoli e sappiamo che gli scimpanzé praticano anche una sorta di guerra primitiva. Dal 1974 al 1977, a Gombe, gli esemplari di una comunità hanno sistematicamente ucciso quelli di un gruppo ribelle, in una serie di attacchi brutali che duravano tra 10 e 20 minuti. Le vittime erano individui con cui gli aggressori avevano giocato fino a poco tempo prima e che a volte avevano anche nutrito.

La differenza più evidente tra gli scimpanzé e gli esseri umani - secondo me - è che noi siamo le uniche creature che hanno sviluppato un linguaggio parlato altamente sofisticato. Gli scimpanzé non possono, per quello che sappiamo, dirsi l’un l’altro cose che sono accadute in un lontano passato, elaborare progetti per un futuro distante o, ancora, insegnarsi cose che non appartengono al presente.

Il nostro linguaggio (e la nostra mente) ci ha dato il potere di dominare le altre specie e di sottomettere la natura. E tuttavia non usiamo queste doti in modo saggio. Stiamo distruggendo il pianeta e molti animali - compresi gli scimpanzé - sono sull’orlo dell’estinzione. Un secolo fa, in Africa, erano circa 2 milioni. Oggi si stima che siano tra 184.300 e 221.600. In parte il declino è dovuto alla distruzione del loro habitat. Ma la minaccia maggiore è il «bushmeat trade», la caccia a fini commerciali per la vendita della carne.

Per centinaia di anni le popolazioni locali hanno vissuto in armonia con il mondo della foresta, uccidendo solo gli animali necessari per nutrire i villaggi. Ora, però, la caccia non è più sostenibile. Negli Anni 80 le società che sfruttano il legname hanno aperto vaste aree vergini delle foreste pluviali, consentendo ai cacciatori di penetrarvi e di colpire qualsiasi specie, dagli elefanti agli scimpanzé, fino alle antilopi, agli uccelli e ai rettili. La carne viene macellata e arrostita e portata nei mercati. Lì l’élite urbana è disposta a pagare molto, più che per un pollo o una capra. E’ una questione culturale. I cacciatori, inoltre, vengono pagati per procurare cibo ai tagliatori di legna. Queste attività commerciali impoveriscono la foresta e minacciano il futuro delle stesse comunità indigene.

Il «Jane Goodall Institute» è una delle Ong che fanno parte del «Congo Basin Forest Partnership»: grazie ai fondi del dipartimento di Stato Usa e dell’Ue cerca di bloccare il commercio della carne. Lavoriamo con altre Ong, con rappresentanti governativi, con agenzie internazionali e con il settore privato, comprese le società estrattive e quelle del legname. Tentiamo di educare e coinvolgere le popolazioni locali.

Se questi sforzi non andranno a buon fine, le grandi scimmie del bacino del Congo potrebbero estinguersi entro 15 anni. E se non avremo successo, quasi tutti gli straordinari animali dell’area scompariranno e la foresta si svuoterà. Non possiamo permetterci che accada. Sempre più persone hanno capito che le scimmie sono in pericolo e vogliono dare un aiuto. Il «Jane Goodall Institute» ha un network di sostenitori convinti, che vogliono lasciare un’eredità positiva ai figli e ai nipoti. Noi immaginiamo un futuro in cui le grandi scimmie vivano in pace, nel loro mondo intatto, senza la minaccia di estinzioni di massa. Sono convinta che si possa costruire un futuro del genere, ma solo se ciascuno di noi farà la propria parte, generando consapevolezza, diffondendo allarmi, sostenendo i gruppi che lavorano per le scimmie. Non c’è tempo da perdere."