domenica 28 ottobre 2007

Goran Bregović: "E' sempre meglio una banda gitana, magari stonata, di una 'Madame Butterfly' imbalsamata dalla routine".

Goran Bregović è nato a Sarajevo il 22 marzo 1950, è uno fra i più noti musicisti e compositori dei Balcani.
Bregović è nato a Sarajevo da padre croato (e membro dell'Esercito popolare jugoslavo) e madre serba. Dopo il divorzio dei genitori, visse assieme alla madre nella zona a predominanza musulmana di Sarajevo, entrando in questo modo a contatto con tutte e tre le culture e nazionalità che formavano (e formano) la Bosnia-Erzegovina.

Iniziò a studiare il violino presso una scuola musicale della sua città, ma ne fu in seguito espulso per mancanza di talento. La madre di Bregović decise allora di regalare al figlio una chitarra. In seguito, Bregović stava per essere iscritto alla scuola delle belle arti di Sarajevo, ma rinunciò a causa dell'opposizione dello zio, che considerava la scuola "piena di omosessuali". Si iscrisse così ad un istituto tecnico e come compensazione la madre gli permise di tenere i capelli lunghi. In questo periodo si unì alla band scolastica Izohipse, nella quale suonava il basso.

Dopo poco tempo venne tuttavia cacciato anche da questa scuola, a causa del suo cattivo comportamento (sembra che avesse causato un incidente con una mercedes di proprietà dell'istituto). Si iscrisse così ad un liceo cittadino, entrando a far parte come bassista del gruppo Beštije. Raggiunta l'età di sedici anni, la madre gli permise di andare al mare da solo, dove si mantenne suonando musica folk in un bar di Konjic, ma lavorando anche nell'edilizia e come distributore di quotidiani.
A un concerto dei Beštije venne notato da Željko Bebek, che lo invitò a suonare il basso nel suo gruppo Kodeksi. Nell'estate del 1969 il gruppo lavorò in un famoso hotel di Ragusa/Dubrovnik, intrattenendo i numerosi turisti presenti sulla costa dalmata. Concluso questo periodo, vennero invitati a suonare in un night club di Napoli. Bebek e Bregović accettarono l'invito, ma persero in seguito l'impiego a causa del cambio che imposero al loro repertorio musicale, meno folk e più moderno, non gradito al padrone del locale. Decisero comunque di rimanere a Napoli, dove continuarono a suonare la musica che preferivano. Nei mesi successivi il gruppo Kodeksi subì dei cambiamenti, e Bregović passò a suonare non più il basso ma la chitarra.

Nel 1970 Kodeksi era formato dai seguenti componenti: Goran Bregović, Željko Bebek, Zoran Redžić e Milić Vukašinović; tutti in seguito faranno parte dei Bijelo Dugme. In quegli anni il gruppo era fortemente influenzato, soprattutto per opera di Vukašinović, dalla musica dei Led Zeppelin e dei Black Sabbath. Verso la fine del 1971 il cantante Željko Bebek lasciò il gruppo. Nello stesso periodo arrivarono a Napoli la madre e il fratello di Bregović, con l'obiettivo di far tornare la band a Sarajevo.

Nell'autunno del 1971 Bregović si iscrisse all'università, decidendo di studiare filosofia e sociologia, studi che però abbandonò presto. Nel frattempo Milić Vukašinović era partito per Londra; Bregović e Redžić iniziarono a suonare in un altro gruppo, Jutro (Mattina). Jutro in seguitò subì alcuni cambiamenti e dal 1 gennaio 1974 cambiò il nome in Bijelo Dugme.

Il leggendario gruppo rock Bijelo Dugme (Bottone bianco) divenne indiscutibilmente il gruppo più famoso nella Jugoslavia degli anni settanta e ottanta.
Dopo lo scioglimento del gruppo (1989) Bregović divenne conosciuto internazionalmente per la composizione delle colonne sonore di numerosi film. Il suo primo progetto fu Il tempo dei gitani di Emir Kusturica (1989), che ottenne grande successo di critica e pubblico sia per la pellicola che per la colonna sonora. La collaborazione tra Bregović e Kusturica continuò e Bregović compose la musica del film successivo, Arizona Dream (1993). Le canzoni vennero cantate da Iggy Pop.

Uno dei maggiori progetti successivi fu la musica maestosa e con toni rock di La regina Margot, diretto da Patrice Cheraeau. Il film vinse due premi al Festival di Cannes (1994).
Ancora maggiore fu il successo di Underground di Kusturica, Palma d'Oro a Cannes (1995).

La musica di Bregović deriva da temi zigani e slavi meridionali ed è il risultato della fusione della tradizionale musica polifonica popolare dei Balcani con il tango e le bande di ottoni.

Nel 2000 ha registrato un album, Kayah i Bregović (Kayah e Bregović), con la popolare cantante polacca Kayah, che ha venduto più di 650.000 copie in Polonia.
Nel 2005 ha preso parte ai 3 grandi concerti d'addio dei Bijelo Dugme a Sarajevo, Zagabria e Belgrado.
Il 24 gennaio 2007 ha suonato con la Wedding and Funeral Band al Crazy Live Music, una serie di concerti gratuiti organizzati in occasione dell'Universiade invernale 2007 in Piazza Vittorio Veneto a Torino.

Attualmente Bregović vive a Parigi con la moglie Dženana Sudžuka e le loro tre figlie Ema, Una e Lulu. Ha inoltre un'altra figlia, Željka, concepita ai tempi dell'università con una ballerina di un night club di Sarajevo. Ha un fratello, Predrag, che vive a New York.

venerdì 26 ottobre 2007

Sull'amicizia

E un adolescente disse: « Parlaci dell'Amicizia ».

E lui rispose dicendo:
« Il vostro amico è il vostro bisogno saziato. E' il campo che seminate con amore e mietete con riconoscenza. E' la vostra mensa e il vostro focolare. Poiché, affamati, vi rifugiate in lui e lo ricercate per la vostra pace.

Quando l'amico vi confida il suo pensiero, non negategli la vostra approvazione, né abbiate paura di contraddirlo.

E quando tace, il vostro cuore non smetta di ascoltare il suo cuore: Nell'amicizia ogni pensiero, ogni desiderio, ogni attesa nasce in silenzio e viene condiviso con inesprimibile gioia.

Quando vi separate dall'amico non rattristatevi: La sua assenza può chiarirvi ciò che in lui più amate, come allo scalatore la montagna è più chiara della pianura. E non vi sia nell'amicizia altro scopo che l'approfondimento dello spirito.

Poiché l'amore che non cerca in tutti i modi lo schiudersi del proprio mistero non è amore, ma una rete lanciata in avanti e che afferra solo ciò che è vano.

E il meglio di voi sia per l'amico vostro.
Se lui dovrà conoscere il riflusso della vostra marea, fate che ne conosca anche la piena.

Quale amico è il vostro, per cercarlo nelle ore di morte? Cercatelo sempre nelle ore di vita. Poiché lui può colmare ogni vostro bisogno, ma non il vostro vuoto. E condividete i piaceri sorridendo nella dolcezza dell'amicizia. Poiché nella rugiada delle piccole cose il cuore ritrova il suo mattino e si ristora.»


Kahlil Gibran

martedì 23 ottobre 2007

In attesa di espulsione

Da due mesi sono rifugiati in un bosco, nel monte di Ceuta (enclave spagnola).Sono trentotto giovani, originari del Bangladesh. Non hanno acqua, né cibo, né accesso ai servizi igienici. Nessuna associazione li aiuta. Secondo il governo, e anche qualche Ong, “hanno abbandonato, di loro volontà un centro dove ricevevano tutti i servizi essenziali”. In realtá cercano di sfuggire a un’espulsione quasi sicura. La loro storia non è delle piú drammatiche, nessuno ci ha lasciato la pelle, però il dolore, silenzioso, è di quelli che segnano una vita. Trentotto vite.

Questa fuga è cominciata lo scorso 18 agosto: nel ‘centro d’accoglienza temporanea per immigranti’ (Ceti) dove alloggiavano, si sparge la notizia dell’imminente arrivo del console del Bangladesh. Compito del funzionario: effettuare il riconoscimento dei suoi connazionali, tutti senza passaporto, e dare il via libera all’espulsione. I bengalesi scappano e si nascondono nel bosco. Molti di loro erano arrivati in Spagna piú di due anni fa: le loro mete erano Madrid, Barcellona, Bilbao, non questa disgraziata enclave spagnola in territorio marocchino. Per pagare i 6/7mila euro del viaggio si erano indebitati con le mafie di turno, avevano ipotecato le case dei genitori. Le inondazioni delle scorse settimane ne avevano distrutte alcune. La fuga dal loro paese (quasi tutti hanno chiesto asilo politico, che è stato loro negato) era cominciata passando dall’India, poi da lí – con qualche variante – Mali, Mauritania, deserto del Sahara (“abbiamo viaggiato a piedi per giorni interi, senza mangiare né bere” raccontano), Algeria, infine Marocco. Molti di loro erano entrati a Ceuta sul sedile posteriore di una moto d’acqua, di notte, scaricati su un una spiaggia, senza bagaglio né documenti. Appena arrivati, avevano ricevuto un ordine di espulsione e l’obbligo di non abbandonare la cittá.

Ceuta è una cittadina tre volte piú piccola di Pavia, con un tasso di disoccupazione che sfiora il 30 percento. I bengalesi si guadagnavano la vita nei posteggi dei supermercati, tre quattro euro al giorno, quando andava bene, per poter chiamare a casa e dire va tutto bene, chissá forse la settimana prossima ci portano nella peninsula, magari, ojalá. Intanto dal centro di permanenza temporanea passavano centinaia di persone: quando la struttura si riempiva, l’amministrazione organizzava viaggi alla peninsula, i migranti venivano messi in libertá, sebbene con un ordine di espulsione pendente. É il massimo che potevano ottenere. Lo scorso luglio avevano detto loro di prepararsi, “domani si parte”. Il giorno dopo si era bloccato tutto: “Problemi con Madrid”, aveva detto la polizia.

Su quali siano questi “problemi con Madrid”, le associazioni che si stanno occupando del caso (pochissime, perché tutte le altre associazioni e Ong danno la battaglia per persa e quindi se ne disinteressano), hanno qualche idea: “Sospettiamo che li stiano utilizzando come moneta di scambio nelle negoziazioni tra il governo spagnolo e quello bengalese per aprire un’ambasciata spagnola in Bangladesh”, dice Marina, del collettivo Binario Clandestino. Secondo questa versione, il governo spagnolo chiederebbe a quello del Bangladesh la firma di un accordo definitivo per eseguire automaticamente le espulsioni dei suoi cittadini. In cambio, aprirebbe un’ambasciata in Bangladesh. Accordi definitivi sulle espulsioni la Spagna li ha giá firmati con vari paesi, tra cui Marocco, Senegal e Nigeria. Le associazioni in difesa dei diritti umani denunciano che il governo spagnolo starebbe dando denaro sotto banco (o ‘travestito’ da altro) ai governi che ricevono gli indesiderati e che, addirittura, alcuni paesi starebbero accogliendo nelle proprie frontiere cittadini di altre nazionalitá.

I trentotto bengalesi resistono. “Non hanno nessuno spirito di ribellione, sono spaventati, la situazione peggiora di giorno in giorno, piove sempre piú frequentemente, non so quanto possano resistere” ci racconta Pepa, una suora che ha visitato l’accampamento. “Molti di loro non smettono di piangere, hanno poco piú di vent’anni”. Se fossero nati qui sarebbero considerati degli adolescenti. Nati in Bangladesh, sono piú semplicemente dei clandestini in attesa di espulsione.

(da Peacereporter)

venerdì 19 ottobre 2007

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: un binomio inscindibile

Falcone e Borsellino: due nomi, un solo luogo del nostro immaginario collettivo, a testimonianza di una tragedia che ha colpito tutti, un intero popolo. E' difficile scindere questo binomio, impossibile parlare di Giovanni, senza immediatamente ricordare Paolo. Nella nostra mente si è insediato un automatismo che sarà difficile rimuovere. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano uniti in vita, legati da un “mestiere” che per loro era missione: liberare la società civile dall'oppressione di una “mala pianta”- la mafia - che nasce, vive e prospera nello stesso umore nutritivo prodotto dalla Sicilia. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono ora inscindibili nella nostra memoria.

Come accade per quanti diventano simbolo contro la loro stessa volontà, eroi soltanto per aver voluto esercitare il diritto di affermare le proprie idee, per aver rifiutato la via facile dell'accomodamento e del quieto vivere. La loro fine, orribile e tragica, li ha fusi insieme. Così che oggi, quasi naturalmente, il viaggiatore che si avvicini alla Sicilia sentirà i loro nomi prima ancora di mettere piede nell'Isola. Al momento dell'atterraggio sarà la voce del comandante ad informare che “tra pochi minuti atterreremo all'aeroporto Falcone - Borsellino”. I siciliani, i siciliani onesti amano quei magistrati caduti a meno di due mesi l'uno dall'altro. I mafiosi li rispettano, come li temevano quando erano vivi. (...)

I colpi subiti dai collaboratori di giustizia, i pentiti. “Invenzione” di Giovanni Falcone, quando nessuno osava soltanto pensare alla eventualità che uno strumento rivelatosi essenziale contro il terrorismo potesse risultare praticabile nella lotta alla mafia. Falcone portò in Italia un Buscetta pentito che doveva aprire la strada al ripensamento di tanti altri boss come Salvatore Contorno, Nino Calderone e Francesco Marino Mannoia. Bastò questo per segnare tanti punti, innanzitutto l'esito del primo maxiprocesso: una disfatta per Cosa Nostra.

Già, il maxiprocesso. Fu forse allora che Falcone e Borsellino firmarono la loro condanna a morte. Cosa Nostra capì che non ci poteva essere convivenza tra i propri interessi e quei due magistrati che parlavano in palermitano, capivano il linguaggio cifrato del “baccaglio” mafioso, si muovevano perfettamente a loro agio tra ammiccamenti, sguardi, segni apparentemente enigmatici, bugie e “tragedie” inesistenti, ordite semmai dal nulla per giustificare reazioni cruente. I due ex ragazzi della Kalsa, che in gioventù avevano giocato al calcio con coetanei poi “arruolati” dai boss, si ritrovavano insieme a contrastare un mondo che conoscevano e capivano perfettamente per averne trafugato, a suo tempo, la chiave di lettura. Per questo poterono dialogare coi collaboratori, riuscirono ad ottenerne la fiducia offrendo in cambio la semplice “parola d'onore” che avrebbe fatto tutto il possibile per aiutarli. Eppure Falcone e Borsellino non dovevano vedersela solo coi “bravi ragazzi” che maneggiano pistole, eroina e tritolo. La storia della vita e della morte di questi due eroi siciliani non lascia spazio a dubbi e ambiguità: Giovanni e Paolo non erano molto amati neppure nelle stanze che contano. Ovvio, si trattava di ostilità che si manifestava in modo diverso. Eppure quella ostilità pesava esattamente quanto le pallottole.

A Giovanni Falcone fu riservata prima la tagliente ironia del Palazzo di Giustizia di Palermo, poi la saccente campagna di stampa contro la presunta smania di protagonismo, quindi un vero e proprio “sbarramento” che gli avrebbe precluso il naturale ruolo di coordinatore delle inchieste sulla mafia. Analoghe difficoltà avrebbe poi incontrato Borsellino durante la sua permanenza a Palermo, dopo l'esperienza di Marsala, nella stanza di procuratore aggiunto.Una marcia lenta - quella di Falcone - verso la delegittimazione, fino al tritolo di Capaci, passando per l'inquietante avvertimento dell'Addaura (attentato fallito del giugno 1989) che si saldava con le “bordate” anonime degli scritti del “Corvo”.

Quando Falcone salta in aria, Paolo Borsellino capisce che non gli resterà troppo tempo. Lo dice chiaro: “Devo fare in fretta, perché adesso tocca a me”. Nessuna fantasia di tragediografo ha mai prodotto nulla di simile. A rileggere, oggi, gli ultimi movimenti, le ultime parole di Paolo Borsellino, ci si imbatte in un uomo cosciente della propria fine imminente, perfettamente consapevole persino del possibile movente, eppure incapace di tirarsi indietro. Forse speranzoso di potercela fare, forse rassegnato ad una morte che in cuor suo “doveva” al suo amico Giovanni. (...)

(Francesco Licata)

giovedì 18 ottobre 2007

Joan Baez

Joan Chandos Baez (New York, 9 gennaio 1941) è nata nel borough newyorkese di Staten Island in una famiglia di quaccheri (movimento religioso appartenente al protestantesimo) di origine inglese, scozzese e messicana. Suo padre, il fisico Albert Baez, rifiutò posti di prestigio nel campo della difesa militare, probabilmente influenzando con queste scelte il successivo impegno politico di Joan nel campo del pacifismo e della tutela dei diritti civili. A causa del suo lavoro, la famiglia ebbe a spostarsi di frequente, sia attraverso gli Stati Uniti che in Francia, in Svizzera, in Italia e in Medio Oriente, dove vissero nel 1951. Joan, allora di soli dieci anni, fu molto colpita dalla povertà e dalle condizioni di vita della popolazione di Baghdad. Nei tardi anni '50 Albert Baez accettò un lavoro al MIT di Boston, dove si trasferì con la famiglia. In quel periodo la città era al centro della scena musicale folk, Joan iniziò a frequentare la locale università e ad esibirsi nei club della zona, spesso al Club 47 Mount Auburn di Cambridge, dove veniva pagata 20 dollari a serata per due sere a settimana. Con altri artisti che si esibivano al club incise il suo primo disco, Folksingers 'Round Harvard Square.

La carriera artistica di Joan inizia nel 1959, con la sua partecipazione al Newport Folk Festival e l'incisione l'anno successivo del suo primo album Joan Baez, una raccolta di ballate folk e blues eseguite per sola voce e chitarra che trova un moderato successo di pubblico.

Il suo secondo disco, Joan Baez, Vol. 2 (1961) diventa disco d'oro, così come i successivi dischi dal vivo Joan Baez in Concert, Part 1 e Part 2 pubblicati nel 1962 e 1963. In quegli anni Joan Baez emerge come esponente del revival del root-folk statunitense, presentando ai suoi concerti un allora meno famoso Bob Dylan e ispirando altre cantanti quali Joni Mitchell e Bonnie Raitt.

Durante questo periodo, in cui la guerra del Vietnam e la lotta per i diritti civili negli Stati Uniti diventano temi al centro dei dibattiti politici e sociali del paese, Joan Baez comincia a spostare la sua attenzione su di essi, fino a rendere la sua musica ed il suo impegno politico sostanzialmente inseparabili. La sua esecuzione di We Shall Overcome alla marcia di Martin Luther King a Washington la unì definitivamente a quell'inno; iniziò inoltre nei suoi concerti ad esprimere più esplicitamente la propria contrarietà alla guerra in Vietnam annunciando pubblicamente la propria obiezione fiscale alle spese militari, rifiutandosi di pagare il 6% delle tasse - la quota destinata al ministero della difesa - e incoraggiando l'obiezione di coscienza al servizio militare. Nel 1965 fonda l'Institute for the Study of Nonviolence.

Nel 1968 sposa David Harris, un esponente del movimento pacifista imprigionato per la sua renitenza alla leva; il matrimonio durerà fino al 1973. Harris, fan di musica country, sposta lo stile di Joan verso il country-rock più complesso di David's Album. Lo stesso anno Joan Baez si esibisce al festival di Woodstock ottenendo una risonanza musicale e politica a livello planetario, in special modo dopo la diffusione dell'omonimo film-documentario dedicato al festival. La sua interpretazione di The Night They Drove Old Dixie Down, del 1971, diventa uno dei 10 singoli più venduti negli Stati Uniti.

L'impegno politico di Joan Baez non viene meno negli anni. Durante il Natale del 1972, si unisce ad una delegazione pacifista che attraversa il Vietnam del Nord sia per chiedere il rispetto dei diritti umani nello stato, che per consegnare la posta e gli auguri natalizi ai prigionieri di guerra statunitensi. Durante il suo soggiorno si scatena su Hanoi il "bombardamento di Natale" ordinato da Richard Nixon: per undici giorni la città viene bombardata ininterrottamente.

Nei primi anni '70, Joan dedica molto del suo tempo a sostenere la fondazione della branca statunitense di Amnesty International. Denuncia inoltre le violazioni dei diritti umani nel Vietnam comunista attraverso la pubblicazione (il 30 maggio 1979) di una lettera aperta in cui accusa il regime di avere creato un incubo. Si reca nel 1981 in Cile, Brasile e Argentina, ma in nessuno dei tre paesi le viene permesso di esibirsi, i governi locali non desiderano che le sue opinioni sulla tortura e sulle sparizioni raggiungano il pubblico vasto che altrimenti avrebbe. Un film dello sfortunato tour, There but for Fortune è stato trasmetto dal canale televisivo pubblico statunitense (la Public Broadcasting Service) nel 1982.

Joan Baez apre la parte di concerto di Philadelphia del Live Aid del 1985 e tiene negli anni successivi diversi concerti a sostegno di altre cause, tra cui l'attività di Amnesty International.

Nell'agosto del 2005 partecipa in Texas al movimento di protesta pacifista avviato da Cindy Sheehan, il mese successivo canta Amazing Grace durante il "Burning Man festival" come parte di un tributo alle vittime dell'uragano Katrina e nel dicembre 2005 partecipa alla protesta contro l'esecuzione di Tookie Williams.

Joan Baez ha un figlio, Gabriel Harris, e attualmente vive a Woodside, in California.



mercoledì 17 ottobre 2007

Vergogna 'Total'

La gigante francese del petrolio Total-Elf si avvia ad una condanna per favoreggiamento nei crimini contro l'umanità commessi dalla Giunta dittatoriale birmana. L'indiscrezione trapela da una fonte tra i dissidenti birmani in esilio, che agiscono presso l'agenzia di pressione pro Democrazia in Birmania presso la commissione europea, Euro Burma.
Due settimane or sono un procuratore federale belga aveva riaperto il caso avanzato dalal denuncia di 4 esuli rifugiati nel paese centro europeo. I quattro hanno accusato l'impresa di aver fornito aiuti logistici e finanziari negli anni '90 al regime per creare un gasdotto utilizzando il lavoro forzato dei detenuti politici; detenuti sui quali vengono anche eseguite condanne extragiudiziali, vengono effettuate torture e si perpetrano omicidi e sequestri ad insaputa degli stessi quadri militari.Questo nella zona di Yadaan, principale campo di sfruttamento di Total in Myanmar, di cui estrae il 25 percento del petrolio greggio.

La denuncia è stata avanzata dal legale dei birmani, la cui identità viene mantenuta segreta, l'avvocato Alexis Deswaef, nei confronti dell'ex numero uno di Total-Elf Thierry Desmarest e del direttore della società per gli affari birmani Hervé Madeo. Una prima denuncia era stata presentata nel 2002, per poi venire giudicata inammissibile perché nessuna delle parti civili era cittadino belga. Ma la legge, ha riconosciuto da poco la Corte Costituzionale belga, permette a un rifugiato di presentare denuncia per la tutela di suoi interessi, così come un cittadino belga. In più, dal 2004 Bruxelles si è dotata di una norma che permette di perseguire crimini contro l'umanità, anche se essi non sono stati commessi su territorio belga o da cittadini belgi, come era stato il caso di Ariel Sharon, denunciato per la sua gestione dell'eccidio di Sabra e Chatila in Libano nel 1982.

L'industria del gas birmana ha fruttato più di 2 miliardi di dollari di profitto ai militari nel 2006, principale fonte di reddito per i dittatori. La maggior parte del denaro proveniva da due sole zone ricche di gas, Yetagun e Yadana. L'ultima, situata nella Birmania meridionale, è stata sviluppata da un consorzio gestito dalla Total dal 1992. La Ong Human Rights Watch ha denunciato la scarsa trasparenza sull'uso che viene fatto dei ricavi del gas: quasi tutto va all'esercito, e una somma irrilevante va a salute, educazione e servizi sociali.

Gli investitori nel settore del petrolio e del gas birmani provengono da Australia, Cina, Isole Vergini britanniche, Thailandia, Malesia, Corea del Sud, Russia, Francia, Stati Uniti, Giappone, Singapore e India. “Le imprese che fanno affari in Birmania sostengono che loro presenza sarebbe costruttiva e darebbe beneficio alla popolazione birmana, ma non hanno ancora condannato gli abusi del governo verso i loro cittadini”, dice Arvind Ganesan, che ha preparato per la Ong Human Rights Watch un dossier sulle sanzioni al regime brimano. Lo scorso anno, Yadana ha prodotto più di 19 milioni di metri cubi di gas al giorno, utilizzati in gran parte per alimentare le centrali energetiche della vicina Thailandia. Yadana ha una capacità di circa 150 miliardi di metri cubi di gas. Total ha calcolato che il suo progetto sul posto durerà per altri 30 anni. Il presidente francese Nicholas Sarkozy aveva detto il 30 settembre che nessuna impresa francese doveva fare nuovi investimenti in Birmania. Nessun cenno a Total perché lasci il paese. Jean-François Lassalle, vicepresidente Total, ha detto che costringere l'impresa a ritirarsi significherebbe soltanto “lasciare altri operatori arrivare al nostro posto”. Ha ammesso che l'esercito birmano ha utilizzato il lavoro forzato nell'area circostante i campi di Yadana. Ma per lui “Total non ha mai fatto uso del lavoro forzato, nemmeno indirettamente attraverso appaltatori. Ci siamo sempre assicurati che il lavoro forzato non fosse utilizzato nelle zone in cui operiamo. Non appena abbiamo appreso di episodi di lavoro forzato nel 'corridoio' del gasdotto abbiamo pagato un risarcimento”.

Harn Yanghwe, dell'ufficio Euro Burma dalla capitale europea ha detto : “Non credo che Total sia coinvolta direttamente negli abusi dei diritti umani. Tuttavia, per poter mantenere operativo il gasdotto, l’impresa ha contrattato il governo birmano per la sicurezza, ed è proprio qui che sta il problema”. Per Yanghwe che le imprese che fanno affari coi dittatori se ne vadano o meno è una “questione delicata. Qualsiasi impresa che abbia lasciato la Birmania è stata finora sostituita”. Le quote dell'industria petrolifera British Petroleum, per esempio, sono state vendute alla malese Petronas. “Quasi tutti i birmani vorrebbero tenere fuori queste imprese dal paese”, ha detto Yanghwe, ma credo che sia una posizione da rivedere. Al momento, tutti i nostri investitori sono imprese asiatiche. Ma dobbiamo mantenere investimenti e imprese straniere con standard internazionali, soprattutto per favorire un cambiamento in Birmania”.

(Gianluca Ursini)

lunedì 15 ottobre 2007

16 ottobre 1943: la deportazione degli ebrei di Roma

La "soluzione finale" per gli ebrei romani arriva il 24 settembre 1943 con l'ordine da Berlino di "trasferire in Germania" e "liquidare" tutti gli ebrei"mediante un'azione di sorpresa". Il telegramma riservatissimo è indirizzato al tenente colonnello Herbert Kappler, comandante delle SS a Roma. Nonostante il colpo delle leggi razziali, gli ebrei a Roma non si aspettano quello che sta per accadere: Roma è "città aperta", e poi c'è il Papa, sotto l'ombra della cupola di San Pietro i tedeschi non oserebbero ricorrere alla violenza. Le notizie sul destino degli ebrei in Germania e nell'Europa dell'Est sono ancora scarse e imprecise. Inoltre, la richiesta fatta il 26 settembre da Kappler alla comunità ebraica di consegnare 50 chili d'oro, pena la deportazione di 200 persone, illude gli ebrei romani che tutto quello che i tedeschi vogliono sia un riscatto in oro. Oro che con enormi difficoltà la comunità riesce a mettere insieme e consegnare due giorni dopo in Via Tasso, nella certezza che i tedeschi saranno di parola e che nessun atto di violenza verrà compiuto. Nelle stesse ore le SS, con l'ausilio degli elenchi dei nominativi degli ebrei forniti dall'Ufficio Demografia e Razza del Ministero dell'Interno, stanno già organizzando il blitz del 16 ottobre.

C'è una lapide sulla facciata della Biblioteca di Archeologia e Storia dell'Arte a Via del Portico d'Ottavia, quasi di fronte alla Sinagoga. Ricorda che "qui ebbe inizio la spietata caccia agli ebrei". Qui, in un'alba di 64 anni fa, si radunarono i camion e i soldati addetti alla "Judenoperation" nell'area del ghetto, dove ancora abitavano molti ebrei romani. Il centro della storia e della cultura ebraiche a Roma stava per vivere il suo giorno più atroce. «Era sabato mattina, festa del Succot, il cielo era di piombo. I nazisti bussarono alle porte, portavano un bigliettino dattiloscritto. Un ordine per tutti gli ebrei del Ghetto: dovete essere pronti in 20 minuti, portare cibo per 8 giorni, soldi e preziosi, via anche i malati, nel campo dove vi porteranno c’è un’infermeria», così Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, ha ricordato quella mattina del 16 ottobre 1943.

Alle 5,30 del mattino di sabato 16 ottobre, provvisti degli elenchi con i nomi e gli indirizzi delle famiglie ebree, 300 soldati tedeschi iniziano in contemporanea la caccia per i quartieri di Roma. L'azione è capillare: nessun ebreo deve sfuggire alla deportazione. Uomini, donne, bambini, anziani ammalati, perfino neonati: tutti vengono caricati a forza sui camion, verso una destinazione sconosciuta. Alla fine di quel sabato le SS registrano la cattura di 1024 ebrei romani.

"Quel 16 ottobre -racconta uno degli scampati alla deportazione- era un sabato, giorno di riposo per gli ebrei osservanti. E nel Ghetto i più lo erano. Inoltre era il terzo giorno della festa delle Capanne. Un sabato speciale, quasi una festa doppia... La grande razzia cominciò attorno alle 5.30. Vi presero parte un centinaio di quei 365 uomini che erano il totale delle forze impiegate per la "Judenoperation". Oltre duecento SS contemporaneamente si irradiavano nelle 26 zone in cui la città era stata divisa per catturare casa per casa gli ebrei che abitavano fuori del vecchio Ghetto. L'antico quartiere ebraico fu l'epicentro di tutta l'operazione... Le SS entrarono di casa in casa arrestando intere famiglie in gran parte sorprese ancora nel sonno... Tutte le persone prelevate vennero raccolte provvisoriamente in uno spiazzo che si trova poco più in là del Portico d'Ottavia attorno ai resti del Teatro di Marcello. La maggior parte degli arrestati erano adulti, spesso anziani e assai più spesso vecchi. Molte le donne, i ragazzi, i fanciulli. Non venne fatta nessuna eccezione, né per persone malate o impedite, né per le donne in stato interessante, né per quelle che avevano ancora i bambini al seno...".
"I tedeschi bussarono, poi non avendo ricevuto risposta sfondarono le porte. Dietro le quali, impietriti come se posassero per il più spaventosamente surreale dei gruppi di famiglia, stavano in esterrefatta attesa gli abitatori, con gli occhi da ipnotizzati e il cuore fermo in gola", ricorda Giacomo Debenedetti.
"Fummo ammassati davanti a S. Angelo in Pescheria. I camion grigi arrivavano, i tedeschi caricavano a spintoni o col calcio del fucile uomini, donne, bambini ... e anche vecchi e malati, e ripartivano. Quando toccò a noi mi accorsi che il camion imboccava il Lungotevere in direzione di Regina Coeli... Ma il camion andò avanti fino al Collegio Militare. Ci portarono in una grande aula: restammo lì per molte ore. Che cosa mi passava per la testa in quei momenti non riesco a ricordarlo con precisione; che cosa pensassero i miei compagni di sventura emergeva dalle loro confuse domande, spiegazioni, preghiere. Ci avrebbero portato a lavorare? E dove? Ci avrebbero internato in un campo di concentramento? "Campo di concentramento" allora non aveva il significato terribile che ha oggi. Era un posto dove ti portavano ad aspettare la fine della guerra; dove probabilmente avremmo sofferto freddo e fame, ma niente ci preparava a quello che sarebbe stato il Lager", ha scritto Settimia Spizzichino nel suolibro "Gli anni rubati".

Per la prima volta Roma era testimone di un'operazione di massa così violenta. Tra coloro che assistettero sgomenti ci fu una donna che piangendo si mise a pregare e ripeteva sommessamente: "povera carne innocente". Nessun quartiere della città fu risparmiato: il maggior numero di arresti si ebbe a Trastevere, Testaccio e Monteverde. Alcuni si salvarono per caso, molti scamparono alla razzia nascondendosi nelle case di vicini, di amici o trovando rifugio in case religiose, come gli ambienti attigui a S. Bartolomeo all'Isola Tiberina. Alle 14 la grande razzia era terminata. Tutti erano stati rinchiusi nel collegio Militare di via della Lungara, a pochi passi da qui. Le oltre 30 ore trascorse al Collegio Militare prima del trasferimento alla Stazione Tiburtina furono di grande sofferenza, anche perché gli arrestati non avevano ricevuto cibo. Tra di loro c'erano 207 bambini.

Due giorni dopo, lunedì 18 ottobre, i prigionieri vengono caricati su un convoglio composto da 18 carri bestiame in partenza dalla Stazione Tiburtina. Il 22 ottobre il treno arriva ad Auschwitz.
Dei 1024 ebrei catturati il 16 ottobre ne sono tornati solo 16, di cui una sola donna (Settimia Spizzichino). Nessuno degli oltre 200 bambini è sopravvissuto.
Dopo il 16 ottobre 1943, la polizia tedesca catturò altri ebrei: alla fine scomparvero da Roma 2091 ebrei. Uno dei momenti più tragici fu il massacro delle Fosse Ardeatine; in queste cave di tufo abbandonate, fuori dalle porte della città e contigue alle vecchie catacombe, il 24 marzo 1944 furono trucidati 335 uomini di cui 75 ebrei.

Roma fu liberata il 4 giugno 1944 e la capitolazione finale di tedeschi e fascisti si ebbe il 2 maggio 1945. Nel 1946, le vittime accertate per deportazioni da tutta Italia furono settemilacinquecento e quelle per massacri mille; gli abbandoni per emigrazione, cinquemila. Dalla comunità di Roma, oltre ai 2091 deportati e morti, mancavano alla fine della guerra anche molti emigrati. Nel biennio 1943-1945 le perdite della popolazione ebraica in tutta Italia furono all'incirca 7750, pari al 22% del totale della popolazione ebraica nel nostro Paese.


(da romacivica.net)

mercoledì 10 ottobre 2007

Tina Merlin: una donna, una voce Libera

Tina Merlin è nata a Trichiana, il 19 agosto 1926 ed è morta a Belluno, il 22 dicembre 1991, è stata una giornalista e scrittrice italiana.
Partigiana in occasione della lotta di resistenza italiana, Tina Merlin cominciò scrivendo racconti pubblicati da Noi Donne. È stata giornalista del quotidiano l'Unità a Belluno, Milano, Vicenza e Venezia dal 1951 al 1982.

Tina Merlin viene ricordata, più che per la sua, pur ricca, produzione letteraria, per la sua caparbietà e ostinazione, che la aiutarono a mettere in luce la verità sulla costruzione della diga del Vajont. Dando voce alle denunce degli abitanti di Erto e Casso, Tina Merlin riuscì a denunciare i pericoli che avrebbero corso i due paesi se la diga fosse stata effettivamente messa in funzione. Inascoltata, per i suoi articoli la giornalista fu addirittura denunciata per "diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico", processata e successivamente assolta dal Tribunale di Milano.

In seguito alla Strage del Vajont, consumata il 9 ottobre 1963, la Merlin tentò di pubblicare un libro sulla vicenda, Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe, che tuttavia trovò un editore solo nel 1983. In seguito collaborò con diverse riviste italiane. Morì il 22 dicembre 1991 dopo un anno di malattia; nel 1992 è stata fondata l'Associazione Culturale a lei intitolata. Postumo uscì, grazie anche a Mario Rigoni Stern, il libro autobiografico La casa sulla Marteniga.


"Non mi ricordo esattamente quando ho cominciato ad occuparmi del Vajont. Probabilmente quando sono cominciati gli espropri da parte della Sade. Era il mio lavoro normale di tutti i giorni. I proprietari, tutti piccoli coltivatori che dal loro pezzetto di terra ricavavano un aiuto in natura che serviva ad integrare il loro magro bilancio, si rifiutavano di cedere al monopolio, a un prezzo irrisorio, la loro terra. Era terra ricavata molte volte dai pendii e bonificata con il lavoro di generazioni. Rappresentava un valore materiale e affettivo insieme. Ogni lotta dei montanari contro il monopolio elettrico cominciava da qui. Non era lotta contro il progresso, ma contro chi in nome del progresso si riempiva il portafoglio a spese altrui. (...) Dopo la Liberazione la Sade costruì in provincia di Belluno diversi bacini idroelettrici: a Pieve di Cadore, ad Arsié, a Forno di Zoldo e nella Valle del Mis. Per ogni impianto mi era capitato di scrivere qualcosa contro la Sade. I soprusi, le prepotenze della società elettrica erano, come si dice, il pane quotidiano di ogni giornalista che avesse voluto parlare di ciò che stava a cuore dei montanari di queste vallate. I primi pezzi su Erto e sul Vajont li ho scritti per raccontare come venivano portati avanti gli espropri. La Sade ricattava i contadini: o accettare le cifre stabilite dal monopolio oppure subire gli espropri di autorità; il denaro intanto veniva versato in banca all'intestatario catastale del terreno che magari era morto o espatriato. Chi in effetti lavorava il pezzo di terra espropriato rischiava di non aver mai in mano quei soldi o di ottenerli dopo pratiche che sarebbero durate degli anni e a prezzo di spese non indifferenti. In queste condizioni i contadini, uno dopo l'altro, hanno ceduto. In seguito sorse un altro problema. Alcune frazioni di Erto venivano tagliate fuori dal centro, con l'invaso. Esse erano collegate al capoluogo da sentieri che attraversavano la valle. I contadini li percorrevano come scoiattoli. Molti ertani possedevano i terreni sull'opposto versante. Come si sarebbero trovati dopo la realizzazione del lago? Chiesero una passerella che collegasse i due versanti. In un primo tempo la Sade disse che l'avrebbe costruita. Poi, attraverso le leve di potere che possedeva, si fece dare un'altra concessione dal ministero che la esonerava dal costruire una passerella. Al suo posto avrebbe fatto una strada di circonvallazione. Per gli ertani significava un lungo e accidentato percorso, soprattutto d'inverno: per i bambini delle frazioni che dovevano recarsi a scuola al capoluogo; per le vecchie, che all'alba andavano a messa; per i contadini che dovevano percorrere oltre tre chilometri per lavorare i loro terreni. E poi c'era il pericolo di frane in una zona dove queste cadevano in continuazione nei mesi del disgelo (...). L'amministrazione comunale di Erto inoltrò un pro-memoria all'ufficio del Genio Civile di Belluno perché il ministero dei Lavori pubblici fosse informato. Non ottenne nulla e la Sade cominciò a costruire la strada (...). I valligiani erano esasperati. Un mattino gli operai dell'impresa vennero affrontati da un contadino che brandiva un'accetta: "Se fate ancora un passo avanti la uso", disse. Chi l'aveva ridotto alla disperazione? (...) Nel frattempo nel bacino di Forno di Zoldo franò un grosso lembo di montagna. La popolazione di Erto si allarmò. Se a Forno aveva fatto precipitare la montagna cosa sarebbe accaduto del loro paese che poggiava tutto su terra argillosa? Queste cose i contadini le sapevano da sempre, ma vollero interrogare i famosi geologi. E il parere dei tecnici e degli scienziati confermò le loro paure: era pura follia costruire un bacino sul luogo. Le perizie geologiche diedero esca a nuove polemiche e le proteste si fecero più vivaci.
Si arrivò a costituire un "Consorzio per la difesa della valle ertana" al quale aderirono 136 capi famiglia. In quella occasione scrissi l'articolo per il quale mi processarono. Raccontai quanto avevano detto i montanari all'assemblea costitutiva del Consorzio. Avevo commesso il "reato" di registrare i fatti e un vice brigadiere dei carabinieri mi accusò di aver diffuso "notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico". Fossi veramente riuscita a turbarlo l'ordine della Sade, oggi non saremmo qui a piangere i nostri morti e a maledire i responsabili! (...) Tra la denuncia e il processo scrissi altri pezzi. E furono probabilmente quelli che contribuirono a farmi assolvere. Nel frattempo infatti, sul monte Toc si erano prodotte fenditure e successivamente una frana era precipitata giù dalla montagna. Parlai del pericolo di nuovi smottamenti e crolli, parlai di una massa di 50 milioni di metri cubi che minacciava di piombare a valle. E sbagliai solo per difetto. Venne il giorno del processo. I montanari di Erto si presentarono davanti ai giudici di Milano in qualità di testi. "Qui ci sono le prove. Se non ci credete venite voi stessi a vedere. Signori giudici, fate qualcosa perché non succeda il peggio". (...) Il Tribunale fece il possibile. Sentenziò che i fatti denunciati erano veri, che il pericolo c'era. Ma chi considerava un articolo sull'Unità più pericoloso di una frana grossa come una montagna restò inerte. Chi doveva trarre le conseguenze della sentenza non mosse un dito, anzi autorizzò la Sade a costruire la diga mortale. Ora che l'irreparabile è accaduto, c'è ancora chi ha il coraggio di affermare che a Roma nessuno sapeva. Come se la Camera, il Senato, dove le mie, le nostre denunce sono state portate dinanzi ai ministri responsabili non stessero a Roma, ma nella capitale del Tanganika. C'è l'ipocrisia che invoca il silenzio di fronte ai lutti e alle devastazioni, che incolpa di tutto le forze della natura. E c'è chi ci considera soltanto dei giornalisti, più bravi e più coraggiosi degli altri ed è disposto a riconoscere che, sì, qualche straccio di tecnico può essere buttato all'aria purché non si tocchi il sistema, purché non si arrivi alla radice. Non sono nè più brava nè più coraggiosa di tanti miei colleghi. Non volevo certo diventare famosa per un fatto così tragico quando scrivevo contro la Sade. Volevo semplicemente impedire che questo disastro colpisse i montanari della terra dove sono nata, dove ho fatto la guerra partigiana, dove ho vissuto tutta la mia vita. E ora non riesco neanche a esprimere la mia collera, il mio furore per non esserci riuscita."

martedì 9 ottobre 2007

9 ottobre 1963 ore 22.39: disastro del Vajont

Vajont è il nome del torrente che scorre nella valle di Erto e Casso per confluire nel Piave, davanti a Longarone e a Castellavazzo, in provincia di Belluno (Italia). La storia di queste comunità venne sconvolta dalla costruzione della diga del Vajont, che determinò la frana del monte Toc nel lago artificiale. La sera del 9 ottobre 1963 si elevò un immane ondata, che seminò ovunque morte e desolazione.
La stima più attendibile è, a tutt'oggi, di 1910 vittime. Sono stati commessi tre fondamentali errori umani che hanno portato alla strage: l'aver costruito la diga in una valle non idonea sotto il profilo geologico; l'aver innalzato la quota del lago artificiale oltre i margini di sicurezza; il non aver dato l'allarme la sera del 9 ottobre per attivare l'evacuazione in massa delle popolazioni residenti nelle zone a rischio di inondazione.
Fu aperta un'inchiesta giudiziaria. Il processo venne celebrato nelle sue tre fasi dal 25 novembre 1968 al 25 marzo 1971 e si concluse con il riconoscimento di responsabilità penale per la previdibilità di inondazione e di frana e per gli omicidi colposi plurimi.
Ora Longarone ed i paesi colpiti sono stati ricostruiti.
La zona in cui si è verificato l'evento catastrofico continua a parlare alla coscienza di quanti la visitano attraverso la lezione, quanto mai attuale, che da esso si può apprendere.









La frana che si staccò alle ore 22.39 dalle pendici settentrionali del monte Toc precipitando nel bacino artificiale sottostante aveva dimensioni gigantesche. Una massa compatta di oltre 270 milioni di metri cubi di rocce e detriti furono trasportati a valle in un attimo, accompagnati da un'enorme boato. Tutta la costa del Toc, larga quasi tre chilometri, costituita da boschi, campi coltivati ed abitazioni, affondò nel bacino sottostante, provocando una gran scossa di terremoto. Il lago sembrò sparire, e al suo posto comparve una enorme nuvola bianca, una massa d'acqua dinamica alta più di 100 metri, contenente massi dal peso di diverse tonnellate. Gli elettrodotti austriaci, in corto-circuito, prima di esser divelti dai tralicci illuminarono a giorno la valle e quindi lasciarono nella più completa oscurità i paesi vicini. La forza d'urto della massa franata creò due ondate. La prima, a monte, fu spinta ad est verso il centro della vallata del Vajont che in quel punto si allarga. Questo consentì all'onda di abbassare il suo livello e di risparmiare, per pochi metri, l'abitato di Erto. Purtroppo spazzò via le frazioni più basse lungo le rive del lago, quali Frasègn, Le Spesse, Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana e San Martino. La seconda ondata si riversò verso valle superando lo sbarramento artificiale, innalzandosi sopra di esso fino ad investire, ma senza grosse conseguenze, le case più basse del paese di Casso. Il collegamento viario eseguito sul coronamento della diga venne divelto, così come la palazzina di cemento, a due piani, della centrale di controllo ed il cantiere degli operai. L'ondata, forte di più di 50 milioni di metri cubi, scavalcò la diga precipitando a piombo nella vallata sottostante con una velocità impressionante. La stretta gola del Vajont la compresse ulteriormente, facendole acquisire maggior energia. Allo sbocco della valle l'onda era alta 70 metri e produsse un vento sempre più intenso, che portava con se, in leggera sospensione, una nuvola nebulizzata di goccioline. Tra un crescendo di rumori e sensazioni che diventavano certezze terribili, le persone si resero conto di ciò che stava per accadere, ma non poterono più scappare. Il greto del Piave fu raschiato dall'onda che si abbatté con inaudita violenza su Longarone. Case, chiese, porticati, alberghi, osterie, monumenti, statue, piazze e strade furono sommerse dall'acqua, che le sradicò fino alle fondamenta. Della stazione ferroviaria non rimasero che lunghi tratti di binari piegati come fuscelli. Quando l'onda perse il suo slancio andandosi ad infrangere contro la montagna, iniziò un lento riflusso verso valle: una azione non meno distruttiva, che scavò in senso opposto alla direzione di spinta. Altre frazioni del circondario furono distrutte, totalmente o parzialmente: Rivalta, Pirago, Faè e Villanova nel comune di Longarone, Codissago nel comune di Castellavazzo. A Pirago restò miracolosamente in piedi solo il campanile della chiesa; la villa Malcolm venne spazzata via con le sue segherie. Il Piave, diventato una enorme massa d'acqua silenziosa, tornò al suo flusso normale solo dopo una decina di ore. Alle prime luci dell'alba l'incubo, che aveva ossessionato da parecchi anni la gente del posto, divenne realtà. Gli occhi dei sopravvissuti poterono contemplare quanto l'imprevedibilità della natura, unita alla piccolezza umana, seppe produrre. La perdita di quasi duemila vittime stabilì un nefasto primato nella storia italiana e mondiale........... si era consumata una tragedia tra le più grandi che l'umanità potrà mai ricordare.

Un saluto al signor Rico Mazzucco (superstite di Casso) che, al nostro arrivo a Longarone, ci ha raccontato la sua storia e quella del disastro con i suoi modellini della valle del Vajont che riproducono la zona prima della costruzione della diga, dopo la costruzione con il bacino completato e adesso, a seguito della caduta della frana.

giovedì 4 ottobre 2007

Than Shwe, il generalissimo

Abbiamo visto in questi giorni la giunta militare del Myanmar esporsi in primo piano durante le manifestazioni capitanate dai monaci buddhisti.
E' stato quasi un evento: la giunta non ama farsi intervistare, riprendere, ritrarre. Soprattutto dalla stampa internazionale.
In particolare il generale Than Shwe, numero uno della giunta, è apparso in molti filmati televisivi e il suo nome è stato accostato alla violenta repressione.

Than Shwe, nato nel 1933, dopo appena vent'anni era già arruolato nell'esercito dell'allora Birmania. Capo del Consiglio di Stato (dopo le dimissioni di Saw Maung nel 1992) e capo delle Forze Armate, alla sua figura vanno attribuiti molti dei problemi che attanagliano il piccolo paese asiatico: dal mancato rispetto per i diritti umani all'introduzione della censura.
Uomo dal facile arresto, Than Shwe ha fatto una carriera militare stupefacente. Poco tempo fa, ad esempio, fece arrestare 50 giornalisti che si erano “permessi” di fotografare la nuova capitale, Naypyidaw, fatta costruire in una zona montuosa e ben riparata per paura di un attacco militare statunitense. Secondo i ben informati, la politica di Than Shwe è anche colpevole della repressione violenta contro la stampa libera.

Dal colpo di Stato avvenuto nel 1962, il generale ha occupato posti dirigenziali di rilievo. Nel 1978 divenne colonnello. Nel 1985 viceministro della Difesa e nello stesso anno ottenne anche un seggio nel comitato centrale del Partito del programma socialista della Birmania, in seguito ribattezzata Myanmar.
Una dei desideri principali di Than Shwe fu una nuova Costituzione che, dal 1992, è ancora in fase di realizzazione.

In molti ritengono che sia colpevole della persecuzione delle popolazioni indigene del Myanmar,come i Karen, Shan e i Chin. Persecuzioni che nel corso degli ultimi quindici anni hanno causato lo sfollamento di almeno 250 mila persone.

(da Peacereporter)