venerdì 28 settembre 2007

Myanmar: situazione dei diritti umani

Il primo regno birmano risale all’anno Mille. Da allora, per quasi un millennio, si susseguirono invasioni, smembramenti e riunificazioni del Paese. Nel 1800, la dinastia al potere tentò mire espansionistiche in India e si scontrò con gli interessi della Compagnia inglese delle Indie. Seguì un secolo di conflitti finché, nel 1919, la Birmania divenne una provincia dell’impero anglo-indiano. Quasi trent’anni di lotte, prima con gli inglesi e poi con le forze di occupazione giapponesi durante la seconda guerra mondiale, portarono all’indipendenza della Birmania nel 1948. La democrazia durò fra alti e bassi fino al 1962, quando un colpo di stato militare vi pose fine. La storia recente delle violazioni dei diritti umani in Myanmar comincia nell’estate del 1988, quando decine di migliaia di persone scesero in piazza per protestare contro 26 anni di governo militare e contro la sua politica economica. L’esercito reagì con estrema violenza aprendo il fuoco in più occasioni sulla folla inerme. Tra i caduti durante le dimostrazioni e quelli prelevati dalle loro abitazioni e uccisi nei giorni seguenti, i morti furono circa 3000.

Tuttavia, dopo poche settimane, la giunta annunciò libere elezioni; si venne allora a creare un fronte di opposizione politica che ha tuttora in Aung San Suu Kyi, figlia del gen. Aung San, considerato l’eroe dell’indipendenza birmana, la sua esponente più autorevole. Le elezioni si tennero nel maggio del 1990, in un clima di pesanti intimidazioni da parte dei militari che avevano arrestato la maggior parte dei leader politici e dei candidati dell’opposizione, fra cui Aung San Suu Kyi, continuando in tutto il paese una massiccia politica di repressione. La Lega nazionale per la democrazia (Nld) ottenne l’80% dei voti, ma al nuovo Parlamento non venne mai consentito di riunirsi. Tra il settembre 1990 e il febbraio del 1991, almeno altri 75 parlamentari, oltre a quelli che al momento delle elezioni si trovavano già in carcere o agli arresti domiciliari, furono arrestati e poi condannati per “alto tradimento” o per “complicità in alto tradimento”. Negli anni successivi il governo birmano si è distinto per la sua politica repressiva, rivolta soprattutto contro le espressioni di dissenso e nei confronti della popolazione civile appartenente alle numerose minoranze etniche.

PRIGIONIERI POLITICI
Attualmente i prigionieri politici in carcere o agli arresti domiciliari sono più di un migliaio. Molti in attesa di processo, altri condannati a pene che arrivano fino a 50 anni di reclusione. Fra loro ci sono appartenenti all’Nld, monaci, studenti, operai e chiunque si sia reso colpevole di aver avuto contatti con birmani esuli all’estero o aver espresso dissenso nei confronti del governo. Nel corso dell’ultimo decennio, almeno 45 di loro sono morti, altri vivono in condizioni estremamente precarie a seguito delle torture riportate al momento dell’arresto o nel corso della detenzione. Amnesty international (AI) è preoccupata da anni per le loro condizioni di salute, a causa di torture fisiche e psicologiche e della pressoché totale mancanza di assistenza medica. Fino a oggi, le richieste di AI per la tutela dei diritti umani dei prigionieri politici sembrano essere cadute nel vuoto, né ha condotto a nulla la richiesta di un’amnistia generalizzata per tutti i prigionieri politici rivolta qualche anno fa dall’allora Relatore speciale per Myanmar delle Nazioni Unite, Paulo Sergio Pinhero

LAVORO FORZATO
Il lavoro forzato è pratica comune in Myanmar. Vi sono sottoposti prigionieri politici e comuni, insieme a persone appartenenti alle minoranze etniche. Il lavoro forzato non retribuito è una violazione della Convenzione N. 29 dell'Organizzazione internazionale del lavoro, alla quale Myanmar ha aderito nel 1955. AI teme che la pratica del lavoro forzato faciliti violazioni dei diritti umani quali la tortura, trattamenti crudeli, disumani e degradanti ed esecuzioni extragiudiziali. Inoltre,in Myanmar il lavoro forzato si macchia anche dell'aggravante della detenzione arbitraria, perché i civili vengono presi con la forza dai militari per essere impiegati come lavoratori non retribuiti ed effettivamente detenuti fino a quando l'esercito non li solleva dai loro compiti.

REPRESSIONE DELLE MINORANZE ETNICHE
La popolazione civile delle zone abitate da minoranze etniche subisce da anni gravi abusi, nell’ambito di operazioni anti-guerriglia da parte dell’esercito regolare e delle formazioni paramilitari sue alleate. Gli abitanti di interi villaggi subiscono feroci rappresaglie e rischiano continuamente di venire arrestati e obbligati a prestare la loro opera come portatori o come operai nei cantieri per la costruzione di strade, quando non vengono addirittura utilizzati come scudi umani. Le condizioni di lavoro, secondo numerose denunce, sono quasi sempre ai limiti della sopportabilità. Molte persone, fra cui donne e bambini, ridotti allo stremo delle forze dopo essere stati utilizzati praticamente come schiavi da parte dei soldati, sono state uccise perché non segnalassero la posizione dell’esercito ai ribelli. Particolarmente feroce è stata in questi anni la repressione nei confronti dei Rohingya, musulmani dello stato di Rakhine (Arakan), degli Shan e dei Karen. Nell’ambito di vaste operazioni di guerriglia interi villaggi vengono evacuati, saccheggiati e bruciati dai militari e dai miliziani che li fiancheggiano in quella che può essere a ragione considerata una politica di vera e propria pulizia etnica.

SITUAZIONE ATTUALE
Le cronache di questi giorni sono tristemente note. La protesta è scoppiata nel mese di agosto, in seguito al raddoppio dei prezzi del carburante e di molti generi di prima necessità. Il Paese si trova infatti a fronteggiare una crisi economica senza precedenti, nonostante le numerose risorse fra cui spiccano il legno teck, particolarmente pregiato, ricchi giacimenti di gas e petrolio. L’intervento dei monaci non è una novità: i religiosi furono già in prima linea nella guerra di liberazione coloniale e, soprattutto, nelle proteste del 1988.

(da Amnesty International)

Nessun commento: