giovedì 30 agosto 2007

Compay Segundo

Esiste un uomo che per se stesso rappresenta un secolo di musica.
Lo potete osservare seduto, cappello bianco in testa, sigaro perennemente acceso in una mano e bicchiere di rum nell'altra per sciogliere ogni esitazione della voce, intonare son e bolero. Chiudete gli occhi ora, ascoltate le sue melodie e i suoi ritmi e vi troverete immersi nella Cuba più autentica, quella dell'estremo sud, quella dei campesinos gentiluomini e della gente più generosa.
Proprio nell'estremo lembo meridionale dell'isola nacque, il 18 novembre 1907, Maximo Francisco Repilado Munoz, nel piccolo villaggio di Siboney. Anche se la sua era una famiglia di gente attaccata alla terra, crebbe circondato dai suoni e dai ritmi dei trovatori del suo tempo e presto egli stesso incominciò ad assaporare il gusto di fare musica.

Con l'irrompere dell'adolescenza conobbe per la prima volta una grande città, Santiago de Cuba, bagnata dal mar dei caraibi e popolata da molteplici mescolanze di razze. L'atmosfera di quegli anni segnerà per sempre non solo il suo modo di fare musica ma il suo stesso stile di vita: "erano tempi molto romantici, salutavamo con il cappello le ragazze e, se una ti piaceva, le gettavi il cappello in terra. Se a sua volta gli piacevi, pestava una parte della tesa del cappello. Io trasmetto quell'atmosfera al pubblico affinché la percepisca e ne goda".
A 14 anni imparò a suonare il tres, tipico strumento a corde cubano, e più tardi la chitarra. Ebbe come insegnanti, tra gli altri, Sindo Garay e Rafael Cueto. Sempre a Santiago conobbe Miguel Matamoros, artista che segnò in maniera decisiva il suo percorso artistico. Nel 1929 arrivò a l'Havana con la Banda Municipale di Santiago, della quale era direttore, invitata per l'inaugurazione del "Capitolio". Successivamente contribuì a riempire di musica i locali e le feste della città, radunando gruppi di persone che suonavano per guadagnasi un poco di denaro.
Come tutti i musicisti di quel tempo, però, era a conoscenza del fatto che non era possibile vivere con la musica e divenne abile ad usare anche altri strumenti, per tagliare capelli e fabbricare sigari.Quando nacque, il son esisteva già da oltre un lustro, creato dagli schiavi negri e mulatti nel contesto della lotta contro la schiavitù. Tuttavia, nel corso degli anni, egli creò un proprio stile, fatto di ritardi e anticipi sulla ritmica classica, e suonandolo con uno strumento, l'armonico, inventato per far si che la sua chitarra suonasse con il tres e conservasse la melodia dei contadini cubani.

Alla fine degli anni '40, con Lorenzo Hierrezuelo creò il duo "Los Compadres" che lo consegnò alla storia con il nome di Compay Segundo. Nella zona orientale di Cuba, infatti, il termine compay è utilizzato come forma contratta di compadres, il padrino del battesimo, ma ha un significato più ampio, simbolizzando amicizia, lealtà ed impegno, una filosofia di vita che quest'uomo sposò fin da piccolo. La parola segundo deriva invece dalla sua voce gradevole, profonda e raffinata, tipica per cantare in seconda.Nel 1953 il duo si sciolse perché Compay fu chiamato dai produttori del famoso rum Brugal a suonare nella Repubblica Dominicana dove il pubblico lo reclamava a gran voce. Iniziò così un periodo che lo portò in giro per il mondo quale ambasciatore della musica cubana. L'esplosione definitiva a livello mondiale arrivò con il gruppo Buena Vista Social Club nel 1997, grazie al disco promosso dal chitarrista Ry Cooder ed all'omonimo film del regista Wim Wenders.
Purtoppo nell'estate 2003 si spegne la grande luce che illuminava il palcoscenico della vita di Compay Segundo lasciando un grande vuoto ma soprattutto un indiscutibile esempio per tutti i musicisti che hanno avuto il privilegio di conoscere e apprezzare un'indimenticabile artista. Descansa en Paz Compay.
(Mauro Sella)

Un passato che non passa

In occasione della Giornata internazionale per le persone scomparse, il Comitato Internazionale della Croce Rossa (Cicr) ha pubblicato un report nel quale stima in circa 18mila i 'desaparecidos' dei conflitti causati dal collasso della ex-Jugoslavia negli anni Novanta.

Per la precisione, il report parla di 17882 vite spezzate, persone delle quali non si è saputo più nulla. Il triste primato delle persone scomparse spetta alla guerra in Bosnia – Erzegovina, dove 13449 persone sono state inghiottite dalla violenza dei combattimenti e della pulizia etnica. Nel conflitto in Croazia invece, sono 2386 le persone di cui si è persa ogni traccia, e altre 2047 persone sono scomparse dopo l'intervento delle truppe della Nato in Kosovo, contro la Serbia.
“Da anni, e dall'inizio della guerra nella ex-Jugoslavia, la Cicr ha appoggiato gli appelli delle famiglie degli scomparsi”, ha commentato Paul Arni, capo della delegazione Cicr di Belgrado, “che ancora sperano di avere notizie sulla sorte dei loro famigliari”.

Il giorno 11 di ogni mese, a Tuzla, in Bosnia – Erzegovina, la associazione civica "Zene Srebrenice" (Donne di Srebrenica), percorre le vie della città fino alla Piazza della Fontana, in centro, portando i drappi con i nomi dei propri cari scomparsi. E' una nuova Plaza de Mayo, in Europa. Srebrenica è diventata il simbolo dei massacri avvenuti nei Balcani: circa 8mila uomini e ragazzi bosniaci vennero trucidati l'11 luglio 1995 dalle truppe serbo – bosniache, nonostante l'enclave musulmana fosse stata dichiarata zona protetta dall'Onu. Ad oggi, nel memoriale di Potocari, dove riposano le vittime, ci sono solo 1400 salme identificate. Anche i serbi hanno i loro desaparecidos e, a maggio dello scorso anno, il governo di Sarajevo ha accettato l'istituzione di un commissione d'inchiesta che indaghi sulla sorte dei serbi della capitale bosniaca che sarebbero stati oggetto di violenze, assassini e sparizioni forzate durante il conflitto.


(Ch.E.)

martedì 28 agosto 2007

Ucciso per non aver ucciso

Kenneth Foster, afro-americano, il 30 agosto verrà giustiziato per un omicidio mai commesso. Dopo 11 anni nel braccio della morte nel carcere di Huntsville, in Texas, salirà sul patibolo perché non aveva previsto che il suo complice, invece che una rapina, stava per commettere un omicidio. E' la legge texana, caso unico negli Stati Uniti.
Il 14 agosto del 1996, Foster si aggira in macchina nei quartieri alti di San Antonio, dove sulle strade si affacciano le abitazioni di chi ha soldi da spendere. Lo sanno bene i quattro ragazzi del ghetto nero di Austin, Kenneth Foster, Mauricio Brown, Dwayne Dillard e Julius Steen, perché stanno programmando una rapina. Con Foster al volante iniziano a seguire Michael LaHood Jr, il figlio di uno dei più noti avvocati bianchi della città. Quando scende dalla sua auto insieme alla fidanzata, Brown lo segue, mentre gli altri lo aspettano con il motore acceso. Pensano alla fuga, ai soldi che si divideranno. Ma improvvisamente si sente uno sparo: LaHood si affloscia sulla strada mentre la fidanzata urla, e i quattro provano a scappare senza successo. In poco tempo sono già davanti alla polizia.

Quasi un anno dopo, il 5 maggio del 1997, il processo si conclude con la condanna a morte di Kenneth Foster, che la sera dell'omicidio non ha mai toccato un'arma. Secondo la Law of Parties, la legge delle parti in causa, un individuo è responsabile di un crimine commesso da altri se è lecito pensare che avrebbe potuto prevederlo e, quindi, impedirlo. E, in forza di questa legge, Foster sarà giustiziato. In vigore solo in Texas, dove pochi giorni fa è stato condannato a morte il 400esimo detenuto dal 1982 e quasi altrettanti aspettano l'esecuzione, la Law of Parties è molto controversa anche negli Stati Uniti. A favore della sospensione della condanna del detenuto numero 999232 si sono pronunciati numerosi avvocati e associazioni, oltre alla giuria popolare del Texas, ma non c'è stato nulla da fare. Foster, in aula, insiste nel proclamarsi innocente: non sapeva che il suo complice volesse commettere un omicidio, stava semplicemente aspettandolo in macchina. Mauricio Brown, quello che ha sparato a LaHood, conferma la sua versione dei fatti e per questo, il 19 luglio del 2006, viene ucciso con un'iniezione letale. Piovono petizioni e manifestazioni a favore di Foster, che nel frattempo presenta il suo ricorso al Tribunale federale distrettuale. A maggio del 2005, con una sentenza di 95 pagine, il giudice Royal Ferguson annulla la condanna a morte "perché non è provato che Kenneth Foster uccise Michael LaHood né che potesse prevederlo". Ferguson, basandosi sulla giurisprudenza della Corte suprema federale, trova il modo di aggirare la Law of Parties e chiede che Foster sia riprocessato e condannato all'ergastolo con la possibilità, dopo 40 anni, di uscire con la con la condizionale. L'accusa ricorre alla Corte federale d'appello del Quinto circolo ma il giudice Maria Teresa Herr, il 13 marzo del 2006, firma la condanna definitiva in forza, ancora, della Law of Parties. Data dell'esecuzione: 30 agosto 2007.

Dice che non si rassegnerà mai, che è una lezione che ha imparato quando era bambino. Foster è nato nel ghetto nero di Austin nel 1976, da una prostituta e da un tossicodipendente con precedenti per droga. Frequenta le scuole superiori, si diletta in piccole rapine e si appassiona alla musica, soprattutto hip-hop. Dopo vari lavoretti in case discografiche della zona a 19 anni fonda una sua etichetta, la Tribulation Label, si sposa e nasce la figlia Nydesha. E ha continuato il suo percorso anche quando è diventato i detenuto numero 999232: scrive poesie, fonda l'associazione Drive. E' un gruppo di detenuti come lui condannati a morte che vuole fare conoscere i lati oscuri del sistema penitenziario statunitense dove si rimane in cella per 22 ore, si può parlare al telefono solo cinque minuti una volta ogni sei mesi e non ci sono possibilità di lavorare o studiare. Per portare avanti la causa a favore di Foster, oltre alle petizioni e alle proteste, è uscita una compilation musicale dal titolo Cruel and Unusual Punishment (punizione crudele e inusitata) a cui hanno collaborato vari artisti contrari la pena di morte. La moglie Jav'lin, invece, ha messo online sul sito http://www.javlin.nl/ il video hip-hop Walk with me (Cammina con me) che racconta la storia dell'omicidio mai commesso. Vederlo costa 99 centesimi, un contributo simbolico alla raccolta fondi per la commutazione della pena. "Ho scelto l'hip-hop - ha detto la donna - perché viene dalla strada, dalla gente che ha capito che Kenneth è innocente". Ma ormai l'unica speranza che gli rimane è che, nel giorno dell'esecuzione, gli venga concessa la grazia.


(Veronica Fernandes)

Peppino Impastato, l'eroe della giustizia

Peppino Impastato. “…nato nella terra dei vespri e degli aranci ”, uomo, certo ma anche eroe, eroe della sua terra.
Una lotta in nome dei suoi ideali, per una legalità che non esisteva, per una vita che intendeva ridare alla sua famiglia e all’intero paese.

Nato a Cinisi, in provincia di Palermo, il 5 gennaio 1948, da una famiglia mafiosa (il padre Luigi era stato inviato al confino durante il periodo fascista, lo zio e altri parenti erano mafiosi e il cognato del padre era il capomafia Cesare Manzella, ucciso con una giulietta al tritolo nel 1963). Ancora ragazzo, rompe con il padre, che lo caccia via di casa, e avvia un’attività politico-culturale antimafiosa.

Nel 1965 fonda il giornalino "L'Idea socialista" e aderisce al Psiup. Dal 1968 in poi partecipa, con ruolo dirigente, alle attività dei gruppi di Nuova Sinistra. Conduce le lotte dei contadini espropriati per la costruzione della terza pista dell’aeroporto di Palermo, in territorio di Cinisi, degli edili e dei disoccupati. Nel 1975 costituisce il gruppo “Musica e cultura”, che svolge attività culturali (cineforum, musica, teatro, dibattiti ecc.); nel 1976 fonda “Radio Aut”, radio privata autofinanziata, con cui denuncia quotidianamente i delitti e gli affari dei mafiosi di Cinisi e Terrasini, e in primo luogo del capomafia Gaetano Badalamenti, che avevano un ruolo di primo piano nei traffici internazionali di droga, attraverso il controllo dell’aeroporto. Il programma più seguito era “Onda pazza”, trasmissione satirica con cui sbeffeggiava mafiosi e politici.

Nel 1978 si candida nella lista di Democrazia Proletaria alle elezioni comunali. Viene assassinato nella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978, nel corso della campagna elettorale, con una carica di tritolo posta sotto il corpo adagiato sui binari della ferrovia. Gli elettori di Cinisi votano il suo nome, riuscendo ad eleggerlo al Consiglio comunale. Stampa, forze dell'ordine e magistratura parlano di atto terroristico in cui l’attentatore sarebbe rimasto vittima e, dopo la scoperta di una lettera scritta molti mesi prima, di suicidio. Grazie all’attività del fratello Giovanni e della madre Felicia Bartolotta Impastato, che rompono pubblicamente con la parentela mafiosa, dei compagni di militanza e del Centro siciliano di documentazione di Palermo, nato nel 1977 e che nel 1980 si sarebbe intitolato a Giuseppe Impastato, viene individuata la matrice mafiosa del delitto e sulla base della documentazione raccolta e delle denunce presentate viene riaperta l’inchiesta giudiziaria.

Il 9 maggio del 1979 il Centro siciliano di documentazione organizza, con Democrazia Proletaria, la prima manifestazione nazionale contro la mafia della storia d’Italia, a cui parteciparono 2000 persone provenienti da tutto il Paese. Nel maggio del 1984 l’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, sulla base delle indicazioni del Consigliere Istruttore Rocco Chinnici, che aveva avviato il lavoro del primo pool antimafia ed era stato assassinato nel luglio del 1983, emette una sentenza, firmata dal Consigliere Istruttore Antonino Caponnetto, in cui si riconosce la matrice mafiosa del delitto, attribuito però ad ignoti. Il Centro Impastato pubblica nel 1986 la storia di vita della madre di Giuseppe Impastato, nel volume La mafia in casa mia, e il dossier Notissimi ignoti, indicando come mandante del delitto il boss Gaetano Badalamenti, nel frattempo condannato a 45 anni di reclusione per traffico di droga dalla Corte di New York, nel processo alla “Pizza Connection”. Nel gennaio 1988 il Tribunale di Palermo invia una comunicazione giudiziaria a Badalamenti.

Nel maggio del 1992 il Tribunale di Palermo decide l’archiviazione del “caso Impastato”, ribadendo la matrice mafiosa del delitto ma escludendo la possibilità di individuare i colpevoli e ipotizzando la possibile responsabilità dei mafiosi di Cinisi alleati dei “corleonesi”. Nel maggio del 1994 il Centro Impastato presenta un’istanza per la riapertura dell’inchiesta, accompagnata da una petizione popolare, chiedendo che venga interrogato sul delitto Impastato il nuovo collaboratore della giustizia Salvatore Palazzolo, affiliato alla mafia di Cinisi. Nel marzo del 1996 la madre, il fratello e il Centro Impastato presentano un esposto in cui chiedono di indagare su episodi non chiariti, riguardanti in particolare il comportamento dei carabinieri subito dopo il delitto. Nel giugno del 1996, in seguito alle dichiarazioni di Salvatore Palazzolo, che indica in Badalamenti il mandante dell’omicidio assieme al suo vice Vito Palazzolo, l’inchiesta viene formalmente riaperta. Nel novembre del 1997 viene emesso un ordine di cattura per Badalamenti, incriminato come mandante del delitto. Il 10 marzo 1999 si svolge l’udienza preliminare del processo contro Vito Palazzolo, mentre la posizione di Badalamenti viene stralciata. I familiari, il Centro Impastato, Rifondazione comunista, il Comune di Cinisi e l’Ordine dei giornalisti chiedono di costituirsi parte civile e la loro richiesta viene accolta. Il 23 novembre 1999 Gaetano Badalamenti rinuncia alla udienza preliminare e chiede il giudizio immediato. Nell’udienza del 26 gennaio 2000 la difesa di Vito Palazzolo chiede che si proceda con il rito abbreviato, mentre il processo contro Gaetano Badalamenti si svolgerà con il rito normale e in video-conferenza. Il 4 maggio, nel procedimento contro Palazzolo, e il 21 settembre, nel processo contro Badalamenti, vengono respinte le richieste di costituzione di parte civile del Centro Impastato, di Rifondazione comunista e dell’Ordine dei giornalisti.

Nel 1998 presso la Commissione parlamentare antimafia si è costituito un Comitato sul caso Impastato e il 6 Dicembre 2000 è stata approvata una relazione sulle responsabilità di rappresentanti delle istituzioni nel depistaggio delle indagini.Il 5 marzo 2001 la Corte d'assise ha riconosciuto Vito Palazzolo colpevole e lo ha condannato a 30 anni di reclusione. L'11 aprile 2002 Gaetano Badalamenti è stato condannato all'ergastolo.

(Articolo di Daddo.it)

La dittatura della violenza

Sono oltre diecimila, esattamente 10.464, e di loro non si hanno più notizie. Sono i desaparecidos, gente scomparsa negli ultimi 14 anni, figli, fratelli, padri mai più tornati a casa, ingoiati dall'oblio. Siamo in Brasile, nel democratico Brasile, più precisamente a Rio de Janeiro, la città del carnevale e delle belle donne, ma anche delle 630 favelas, alveari di casupole di legno abitate da milioni di poveri che altro non conoscono se non l'arte di arrangiarsi. A qualunque costo. È in quella terra di nessuno, dove anche lo Stato deve sgomitare per farsi posto, che si registra questa tragica situazione.

È l'anarchia a farla da padrona nella periferia di Rio. La criminalità organizzata sguazza in uno stagno di povertà, impunità e desolazione, e si erge quale factotum che tutto controlla. Basata sul narcotraffico, sul contrabbando di armi, su pizzi e contributi estorti alla gente dei villaggi, la malavita si fa strada a suon di colpi d'arma da fuoco. Uccide l'adepto che ha sbagliato, o quello che ha tradito; si improvvisa in estemporanei duelli con pattuglie di polizia la squadre di militari spedite a dare quanto meno la parvenza della presenza statale; si scontra in quotidiani far west con bande rivali per il controllo del territorio ed si guarda le spalle da bande paramilitari, che si improvvisano tutori dell'ordine a suon di mitra. Tutto questo, alla faccia di donne, bambini, anziani, famiglie che tentato di vivere una vita decente in una zona che di decente ha ormai ben poco.

Il 70 percento dei desaparecidos denunciati dal dipartimento Omicidi della capitale carioca, e resi pubblici dal quotidiano brasiliano O Globo, sono vittime proprio di narcotrafficanti, polizia e milizie. E si tratta di un numero 54 volte superiore a quello riguardante le sparizioni durante la dittatura militare in Brasile. Se poi si aggiungono le migliaia di morti degli ultimi anni – 1631 solo da febbraio scorso, in base al conto tenuto dal sito internet made in Brasile Rio body count – il quadro è presto fatto. A Rio c’è una vera e propria guerra, che tiene fuori dalla porta democrazia e stato diritti. A Rio c’è una vera e propria dittatura, la dittatura del terrore.

Le famiglie degli scomparsi non si danno pace. Da anni reclamano informazioni sui loro congiunti, generalmente giovani, molti dei quali minorenni. Le regole del gioco criminale sono spietate: i cadaveri scomodi vengono sotterrati alla zitta in luoghi ameni per evitare problemi con la polizia. Chi è eliminato non ha nemmeno il diritto a un funerale. E, a quanto raccontato alla polizia da alcuni narcos ‘pentiti’, prima di essere uccisi, vengono persino torturati. Anzi, durante un processo, uno di questi delinquenti raccontò, davanti alla madre di uno dei giovani desaparecidos - la quale svenne - che prima di finirlo, al ragazzo furono tagliate le narici con le forbici. E, durante il percorso fino al luogo della sepoltura, li vennero tagliati uno a uno ogni dito, le orecchie e la lingua. Un'altra volta la vittima venne squartata ancora in vita e i pezzi del cadavere vennero poi sparpagliate.

Una sorte simile toccò anche a un giornalista. Si chiamava Tim Lopes e lavorava per O Globo. Prima di venir ucciso a colpi in testa, venne barbaramente torturato. Poi i suoi resti vennero carbonizzati. A raccontarlo, uno dei delinquenti che prese parte al commando omicida, arrestato dalla polizia.
Nelle favelas, il narcotraffico “ha imposto il suo codice di leggi marzial”, ha commentato l’ex ministro della Giustizia e attuale presidente della Commissione diritti umani dello stato di San Paolo. La sparizione dei corpi non è che una delle conseguenze della violenza che impera nelle favelas, dove la gente ci vive e ci muore non gode degli stessi diritti fondamentali degli altri cittadini. Le favelas sono un posto altro dal Brasile delle cartoline. Sono la faccia oscura di una gigante in marcia verso il boom economico, energetico, alimentare. E i governanti lo sanno. Per questo Lula sta investendo fette copiose del bilancio federale nel risanamento urbano e nella lotta alla violenza. Ma poco si sta facendo, ancora, per combattere disoccupazione e analfabetismo. Non è militarizzando che si risolvono le gravi piaghe sociali. Questa gente dovrebbe prima di tutto avere il diritto di vedere la presenza dello Stato negli occhi di insegnanti e assistenti sociali, e non solo nelle canne di fucile in dotazione all’esercito.


(Stella Spinelli)

venerdì 24 agosto 2007

Rambo IV, un inno alla violenza

A febbraio 2008 uscirà nelle sale cinematografiche il quarto episodio della saga di Rambo. Inizialmente doveva intitolarsi “Rambo IV: La perla del cobra”, poi la casa di produzione ha optato per un meno evocativo nome e cognome: “John Rambo”.

L’ormai anziano reduce del Vietnam John Rambo conduce una vita tranquilla a Bangkok, in Thailandia, lavorando come fabbro. Un gruppo di missionari cristiani chiede il suo aiuto per raggiungere via fiume il confinante Myanmar (ex Birmania), dove devono andare a portare soccorso ai villaggi della minoranza Karen colpiti dall’ennesima offensiva genocida del brutale regime militare birmano. L’ex marine rifiuta. “E’ una zona di guerra” risponde senza alzare gli occhi dall’incudine, lasciando intendere di averne avuto abbastanza. Così i missionari partono da soli ma, una volta a destinazione, vengono rapiti dai soldati birmani del sadico maggiore Pa Tee Tint. A questo punto Rambo non può tirarsi indietro e parte per l’ennesima missione di salvataggio della sua vita, vendicando con una violenza estrema le barbarie commesse dai militari birmani contro i Karen.

Se vi aspettate un film estremo, Rambo IV riscriverà il significato di violento nel vostro vocabolario personale”.
Così il superdopato Sylvester Stallone – che prima dell’inizio delle riprese era stato fermato in Australia per possesso di ormoni proibiti – ha presentato la sua prossima pellicola, stuzzicando il pubblico più giovane e assetato di sangue e superviolenza. Un tipo di pubblico che non rimarrà certo deluso a giudicare dal tralier già visibile su You Tube: sequenze splatter in cui Rambo, in preda a una disgustosa furia macellaia, decapita, sgozza e squarta tra fiotti di sangue e sventagliate di mitra.
Questo film avrà forse il merito di portare all’attenzione del grande pubblico il dramma dei Karen e della altre minoranze birmane che da decenni vengono perseguitate dal regime di Yangon.
Ma di certo, come riconosce lo stesso Stallone, contribuirà a innalzare sensibilmente il tasso di assuefazione alla violenza di decine di milioni di giovani spettatori.

giovedì 23 agosto 2007

Ottanta anni fa Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti vengono uccisi sulla sedia elettrica in Massachusetts. Innocenti

23 agosto 1927. Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, finiranno la loro esistenza su una sedia elettrica. Accusati di aver compiuto una rapina a mano armata, uccidendo due persone. Ma non è vero. Il processo è stato truccato. Nicola Sacco ha 36 anni, viene da Torremaggiore (FG). Bartolomeo Vanzetti ne ha 39 anni e viene da Villafelletto (CN).
Sacco e Vanzetti, Nick & Burt come li chiamano tutti qui, saranno uccisi non per il crimine di cui li si accusa ingiustamente. Ma per dare un esempio. Saranno uccisi perché sono due stranieri, due immigrati. E perché sono sovversivi. Sono dei rossi, degli anarchici. Oggi, 23 agosto 1927, la loro vita verrà spezzata. Di loro, ai loro cari, resterà il ricordo di due brave persone, due umili italiani, un ciabattino e un pescivendolo, che partirono in cerca di fortuna e trovarono carcere e morte. E su loro calerà l’oblio.

E’ una notte stellata qui a Charleston, nel Massachusetts. C’è una brezza leggera che accarezza dolcemente i rami. Tutto è pronto per l’esecuzione. Nick & Burt, piccoli granelli di sabbia, saranno presto sepolti. I loro cuori smetteranno di battere. In queste ore, le loro ultime ore, scrivono, Nick & Burt. Si vedono i lumi delle loro celle accesi. Scrivono una lettera ai loro cari, certo. Ma stanno anche scrivendo una piccola frase, per tutti gli altri. Un piccolo tratto sul grande muro bianco dell’esistenza. Una frase, poche parole, che tutti noi possiamo leggere.. Se lo vorranno potranno leggerla anche gli uomini che abiteranno il futuro. Basterà ricordarsi di loro, della loro storia, del loro esempio. E ora, qui, sotto questo cielo muto, mentre l’ora finale s’avvicina, il pensiero va a quando Nick & Burt, partirono dall’Italia, a bordo di una nave, assieme a tanti altri. Era il 1908, Nick aveva 17 anni, Burt 20. Ricordiamoli così: due giovani cuori che battono, gonfi di speranza per un mondo migliore, più libero, più giusto, un mondo dove tutti gli uomini sono creati uguali (come dice la Costituzione degli USA). Uomini che attraversano l’oceano guardando le stelle brillare. Milioni di Nick & Burt che vivono, lottano - talvolta, purtroppo, muoiono - in questo strano sogno che è la vita, per un futuro migliore per tutti. Here and There. Everywhere.

Here's to you Nicola and Bart Rest forever here in our hearts The last and final moment is yours That agony is your triumph!


Vi rendo omaggio Nicola e Bart Per sempre restino qui nei nostri cuori Il vostro estremo e finale momento Quell'agonia è il vostro trionfo! (Joan Baez e Ennio Morricone)

mercoledì 22 agosto 2007

PABLO NERUDA: Sulla vita

Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marcia, chi non rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce.
Muore lentamente chi evita la passione, chi preferisce il nero su bianco, i puntini sulle “i” piuttosto che un insieme di emozioni, proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti ad errori e sentimenti.
Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza per l’incertezza, per inseguire un sogno, chi non permette mai, almeno una volta nella vita, di fuggire ai consigli sensati.
Muore lentamente chi non viaggia, chi non legge, chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso.
Lentamente muore chi distrugge l’amor proprio, chi non si lascia aiutare, chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna, o della incessante pioggia..
Muore lentamente chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non fa domande su argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.
Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando che essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare.Soltanto l’ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicità.

Un futuro alimentare a base di patate

In Perù, ormai da due anni, il 30 maggio si festeggia la patata, alimento tipicamente andino il cui centro di origine è stato individuato negli anni trenta dal botanico russo Nicolaj Vavilov. Ma l'umile tubero è molto più antico, risale a 8000 anni fa, e lo conferma anche una recente ricerca di David Spooner, del Dipartimento di agricoltura statunitense: l'anno scorso - dopo uno studio su 261 varietà silvestri e 98 varietà coltivate - ha confermato che l'area di origine del Solanum tuberosum si trova tra le regioni di Cuzco e Puno, e che le prime coltivazioni di patate erano situate nei dintorni del lago Titicaca, all'attuale frontiera tra Perù e Bolivia. Al tempo delle culture pre-ispaniche, il tubero giocò un ruolo importante nell'alimentazione indigena e popolare. I primi a addomesticare varietà di patate selvatiche furono le comunità andine di Puno, che riuscirono a disidratare i tuberi per trasformarli in polvere di chuño e poter così conservare il prezioso alimento anche per lunghi periodi.

Ma il significato della patata, nel mondo pre-ispanico, trascende da quello economico o nutrizionale per trasformarsi in un elemento che spiega la cosmovisione andina e lo sviluppo di quella società. All'epoca il tubero era così presente nella vita quotidiana degli indios che, tra le unità di tempo impiegate, una addirittura equivaleva alla durata di cottura di una pentola di patate. Ciononostante l'abitudine alimentare di mangiare patate in Perù, col passare dei secoli, è molto diminuita, fino ad arrivare ad un consumo annuale procapite di 87 chili. Così ora festeggiare il tubero con tanto di decreto istituzionale è un modo per promuoverne un consumo maggiore e prepararsi alla celebrazione dell'anno internazionale della patata, indetto per il 2008 dalla Fao, l'Organizzazione dell'Onu per l'agricoltura e l'alimentazione. «Ospite speciale» sarà non a caso il Perù, perché è il paese andino che ospita l'Arca dei tuberi, il Cip (Centro internacional de la papa), dove se ne conservano 3.900 distinte varietà, delle 7.500 esistenti in tutto il mondo, di cui 1.950 sono silvestri. Una riserva strategica per l'agricoltura e l'alimentazione mondiale. Che si presti a mille fantasie dell'arte culinaria infatti non v'è dubbio, ed è anche ricca di carboidrati, amido e fibre. Ma non è solo per questo che la patata sta diventando la protagonista di tanti spot pubblicitari, anche da noi.

Si prevede che per i prossimi venti anni, ogni anno, la popolazione mondiale aumenterà mediamente di 100 milioni di persone, delle quali oltre il 95% vedrà la luce in paesi in via di sviluppo, dove già viene esercitata un'intensa pressione sulle terre e sull'acqua. Pertanto il mondo affronta la sua sfida decisiva: garantire la sicurezza alimentare alle generazioni attuali e future e, insieme, proteggere le risorse naturali di base da cui l'agricoltura dipende. E la patata avrà un importante ruolo di complemento in un sistema alimentare basato soprattutto su granaglie e cereali.

Dalle pianure di Yunnan in Cina, all'India subtropicale, alle montagne ecuadoriane di Java fino alla steppa ucraina, la superficie terrestre coltivata attualmente a patate supera i 190 mila chilometri quadrati e una produzione annuale oltre i 323 milioni di tonnellate. Non che la patata possa sostituire i cereali, che come alimento contengono un po' più proteine (fino al 10-12%, contro meno 3% della papata) e sono più facili da conservare (il seme è secco, meno del 10% di umidità), senza contare che grano e orzo crescono in tutti i climi. E però, se è vero che in Europa e in tutto il mondo «sviluppato» il consumo dell'umile tubero è diminuito, tutto sta a indicare che nel prossimo futuro potrebbe riacquistare un ruolo e anche le nostre abitudini alimentari subiranno cambiamenti.

Giacinto Facchetti

Giacinto Facchetti (Treviglio, 18 luglio 1942 – Milano, 4 settembre 2006) è stato un calciatore e dirigente sportivo italiano, già capitano della Nazionale di calcio italiana e difensore dell'Inter.

Iniziò la carriera nella squadra di calcio del suo paese natale, la Trevigliese, nel ruolo di attaccante. Venne scoperto da Helenio Herrera che lo portò all'Inter per il finale di stagione 1960-1961, trasformandolo in terzino. Il cambio di ruolo fu la chiave di volta per la carriera di Facchetti, che si affermò come uno dei più importanti difensori della storia del calcio italiano.

Il suo esordio in Serie A avvenne il 21 maggio del 1961, in un Roma-Inter conclusosi con la vittoria dei nerazzurri per due a zero. Nonostante il giovane Facchetti non avesse disputato un buon incontro, l'allenatore Herrera lo incoraggiò con una dichiarazione che successivamente si rivelò di buon auspicio per il calciatore:
« Questo ragazzo sarà una colonna fondamentale della mia Inter. »

Facchetti divenne uno dei cardini della cosiddetta "Grande Inter" che si aggiudicò la Coppa dei Campioni nel 1964 e nel 1965 e il campionato italiano nel 1963, 1965, 1966 e 1971. Con la squadra nerazzurra vinse anche due Coppe Intercontinentali ed una Coppa Italia. Abile marcatore e discreto incursore d'area (con l'Inter in 634 partite realizzò 75 gol: fu nel 1965-66 il primo difensore italiano a segnare 10 reti in un campionato), il terzino bergamasco nella sua carriera fu sempre fedele all'Inter diventandone una delle bandiere storiche. Verso la fine della carriera venne schierato anche come libero. Come giocatore si rivelò fondamentalmente corretto in campo: venne espulso solo una volta nell'arco di tutta la sua carriera.
In Nazionale, Facchetti esordì il 27 marzo 1963 in un incontro valido per la qualificazione all'Europeo dell'anno successivo disputato ad Istanbul contro la Turchia (vinse l'Italia 1-0). Da allora disputò un totale di 94 match con gli azzurri, record superato solo da Dino Zoff, Paolo Maldini e Fabio Cannavaro. Vinse da capitano gli Europei del 1968 e arrivò secondo dopo la storica vittoria per 4-3 sulla Germania Ovest ai Mondiali di Messico 1970.

Lo stesso anno in cui Facchetti diede addio al calcio ebbe l'opportunità di fare il dirigente accompagnatore dell'Italia durante i Mondiali argentini del '78.
Dopo esser divenuto rappresentante all'estero per l'Inter, divenne Vicepresidente dell'Atalanta, per poi tornare dai nerazzurri di Milano durante la presidenza di Massimo Moratti col il ruolo di Direttore Generale. Divenne Vicepresidente dopo la morte di Giuseppe Prisco e, infine, Presidente il 19 gennaio 2004, dopo le dimissioni di Massimo Moratti.
Da Presidente dell'Inter, ha vinto 2 Coppe Italia, 2 Supercoppe italiane di calcio e 2 scudetti, sempre con l'Inter (il secondo conquistato nella stagione sportiva della sua prematura scomparsa).
Gli ultimi suoi acquisti presentati da lui sono stati Luis Figo e Zlatan Ibrahimovic. L'ultimo riconoscimento tributatogli è stato il Golden Foot, premio assegnatogli qualche giorno prima della sua morte, come uno dei più grandi calciatori di sempre assieme a Raymond Kopa, Alcides Ghiggia, Zico e Ferenc Puskás.

Da alcuni mesi malato di tumore al pancreas, Facchetti si è spento a Milano il 4 settembre 2006. I funerali, celebratisi nella chiesa di S. Ambrogio a Milano, hanno visto la presenza di molte autorità sportive e politiche e di gente comune. In onore di Giacinto Facchetti l'Inter ha deciso di ritirare la maglia numero 3.
In sua memoria, e in particolare in memoria dei suoi valori morali, La Gazzetta dello Sport ha istituito il premio "Il bello del calcio", che alla sua prima edizione è stato vinto dal giocatore del Vicenza Julio González, e la Lega Calcio ha nominato il Campionato Primavera "Trofeo Giacinto Facchetti".


« Lassù in un cielo nero-azzurro, non solo azzurro, sarà come un grande spogliatoio che lo accoglie sempre con un grande applauso, quando entra e quando esce. »
(Roberto Vecchioni)

martedì 21 agosto 2007

Bianco, leggenda di un monte maledetto

Spiriti maligni, diavoli, geni nefasti. La leggenda che aleggia intorno alla cima regina delle Alpi vuole che nel ventre del Monte Bianco si annidino gironi di creature malefiche che nel corso dei secoli sono state confinate lì da celebri santi. Senza mai trovare pace, proverebbero di continuo a sfondare le pareti della montagna nel tentativo di tornare a dominarla.

Valanghe mortali, crepacci immensi, temperature rigide e insidie d'ogni tipo gli avevano fatto guadagnare il nome di "Mont Maudit" (monte maledetto). Un monte che non si accontentava di mietere vittime, di riversare a valle rocce e ghiacci.
Ma che ad un certo punto, stregato dagli spiriti che lo dominavano, aveva piano piano inghiottito tutto ciò che lo circondava - pascoli, abitati, boschi e creature - con un'immensa coltre di gelo. E questa non è una leggenda: dal 1300 in poi, colate di ghiaccio si estesero del Monte Bianco fino a valle per chilometri e chilometri. Era l'inizio della Piccola Età Glaciale.

Gli abitanti dei villaggi che sorgevano all'ombra dei suoi versanti, terrorizzati, cercavano di sopravvivere e in ogni modo di placare le sue ire. Era gente di cuore, ospitale, generosa. Un popolo, insomma, che era tutto il contrario di quella montagna perfida e dall'aura oscura, che inghiottiva chiunque e qualunque cosa avesse intorno.
Fu forse per questa bontà che la maledizione del Mont Maudit, un bel dì, ebbe fine. Si risolse per merito di buon'anime, di santi celebri, di spiriti benefici, che nei secoli si succedettero nell'abitare o soggiornare ai piedi della montagna.

Personaggi che pian piano indebolirono le forze del male e spianarono la strada ad un potente mago che, sotto le spoglie di un semplice viandante, grazie ad un incantesimo rinchiuse tutte le creature sataniche nel possente torrione del Dente del Gigante, conosciuto storicamente anche con il nome di "Gargantua".

San Francesco di Sales, vescovo della valle dell'Arve, nel XVII secolo prese ad indicarlo nei suoi scritti con il beneaugurante nome di "Mont Blanc". Un nome che venne adottato dai cartografi, e poi dagli scrittori, e infine dal sapere popolare. E che alla fine fece scendere davvero un'aura candida su questa maestosa montagna, vero emblema di tutto l'arco alpino.
Ma attenzione. Gli spiriti del male, da lassù, non se ne sono andati per sempre. Sono solo sepolti tra le rocce e le nevi perenni del massiccio. E il loro disperato scalpitare continua a provocare l'aprirsi di gole o la caduta di valanghe sui versanti della montagna.

Wilt Chamberlain

Wilton "Wilt" Norman Chamberlain (Philadelphia, Pennsylvania, 21 agosto 1936 – Los Angeles, California, 12 ottobre 1999) è stato un cestista statunitense, professionista della NBA.
È considerato uno tra i migliori giocatori di pallacanestro di sempre ma è anche ricordato per il suo carattere irascibile, per il suo stile di vita votato all'eccesso e per lo stile di gioco da cannibale.

Chamberlain, 2,16 metri, noto come Wilt the Stilt o The Big Dipper, detiene circa 100 record NBA. Esordisce fra i professionisti coi Philadelphia Warriors nel 1959, dove resta fino al 1968, quando passa ai Lakers. Ha vinto in tutto 2 titoli NBA.
Fra i suoi record c'è quello del maggior numero di punti segnati in una sola gara, 100, che realizzò il 2 marzo 1962 contro i New York Knicks a Hershey, Pennsylvania. In quella partita andò a canestro con 36 tiri da due punti e 28 tiri liberi. Nella sua carriera, ha una media di oltre 30 punti e 22 rimbalzi a partita.Vinse 4 volte il premio di miglior giocatore della lega, 11 volte la classifica del miglior rimbalzista, 7 quella della miglior percentuale di tiro, 7 quella del miglior marcatore, e 1 quella del miglior assist-man. In 14 stagioni nella lega professionistica statunitense, non raggiunse mai il limite dei sei falli, nonostante fosse il pilastro della difesa della sua squadra.
Chamberlain ha messo a segno 31.419 punti (4° posizione assoluta) in 1.045 partite, il che lo collocava al primo posto della classifica del giocatore con il maggior numero di punti in carriera quando si è ritirato, nel 1974; 15 anni più tardi è stato superato da Kareem Abdul-Jabbar .
La sua media punti per gara in carriera, 30,07, è la seconda nella storia della NBA dietro solamente a quella di Michael Jordan (30,12); è il quarto marcatore di tutti i tempi.

Wilt Chamberlain è stato eletto nella Basketball Hall of Fame.

lunedì 20 agosto 2007

Il Cristo Redentore

Il Cristo Redentore (in portoghese: Cristo Redentor) è una statua rappresentante Gesù Cristo che trova collocazione sulla cima della montagna del Corcovado, che si erge a 710 m s.l.m. a picco sulla città e sulla baia di Rio de Janeiro, è alta circa 38 metri ed è uno dei monumenti più conosciuti e più belli al mondo.
Ormai la statua è un simbolo della città e del Brasile e rappresenta il calore del popolo brasiliano che accoglie a braccia aperte i visitatori.
L'idea di costruire una statua in cima al monte Corcovado nacque intorno al 1850, quando il prete cattolico Pedro Maria Boss chiese alla principessa Isabella dei fondi per la costruzione di un grande monumento religioso. Quest'ultima non era molto d'accordo con questa idea, che fu completamente abbandonata nel 1889 quando il Brasile divenne una repubblica e si ebbe la separazione tra Stato e Chiesa.
Una seconda proposta per la costruzione della statua fu fatta dall'arcidiocesi di Rio de Janeiro nel 1921. Si organizzò un evento chiamato Semana do Monumento (settimana del monumento) per la raccolta dei fondi necessari alla sua costruzione, che vennero in larghissima parte da cattolici brasiliani. Il progetto di questa costruzione doveva contenere una rappresentazione del simbolo cristiano della croce e il Cristo doveva avere nelle mani un globo ed essere situato su un basamento rappresentante il mondo. Tuttavia fu scelto il progetto del Cristo con le braccia aperte.
Il monumento fu progettato dallo scultore francese Paul Landowski, e come supervisore alla costruzione fu scelto l'ingegnere locale Heitor da Silva Costa. Un gruppo di tecnici studiò il progetto di Landowski e decisero di sviluppare la struttura in calcestruzzo anziché in acciaio perché questo materiale è più adatto a strutture a forma di croce. Si decise, inoltre, di fare lo strato esterno di un materiale al tempo stesso malleabile e resistente a condizioni climatiche estreme.
Il monumento fu inaugurato il 12 ottobre 1931 dal presidente Getúlio Vargas in una grande e sontuosa cerimonia.
Nell'ottobre del 2006, in occasione del 75esimo anniversario della statua, l'arcivescovo di Rio de Janeiro Eusebio Oscar Scheid consacrò una cappella sotto la statua.

Si può giungere alla statua attraverso una linea ferroviaria che collega la statua alla città di Rio de Janeiro. Fino a poco tempo fa, per raggiungere la statua, era necessario percorrere i 222 gradini che la dividevano dal terminale della linea ferroviaria: una barriera architettonica insormontabile per visitatori disabili. Nel 2002, tuttavia, c'è stato un grande processo di rinnovamento della zona per risolvere questo problema: furono montati 3 elevatori panoramici e 4 scale mobili.
Ai piedi della statua è posta una targa messa dalla comunità italiana nel 1974 (in occasione del centenario della nascita di Guglielmo Marconi) per commemorare l'accensione delle lampade della statua tramite un impulso radio da Roma da parte dello scienziato italiano il 12 ottobre 1931.

venerdì 10 agosto 2007

Vlade Divac

Vlade Divac, nato il 3 febbraio 1968 a Prijepolje, è un giocatore di pallacanestro serbo che ha militato per quasi tutta la sua carriera nell'NBA. Altezza 216 cm., peso 118 kg. circa. Uno dei suoi soprannomi più noti è Marlboro man, per la sua smodata passione per il fumo.

Divac viene scelto nei draft del 1989, all'età di ventun anni dai Los Angeles Lakers, con la 26° scelta assoluta. A Divac tocca l'ingrato, nonché difficilissimo compito di essere il centro dei Lakers l'anno dopo il ritiro di Kareem Abdul Jabbar. Nonostante qualche problema iniziale con la lingua, si ambienta bene nell'ambiemte losangelino grazie anche all'amicizia che lo lega da subito al leader della squadra Magic Johnson.

La squadra è vecchia e il primo anno di Divac segue i due titoli vinti consecutivamente: nei play-off del 1990 la squadra è eliminata al secondo turno dai Phoenix Suns. La stagione dopo è "il canto del cigno" dei grandi Lakers degli anni ottanta di Magic e James Worthy; sulla panchina non siede più Pat Riley, bensì Mike Dunleavy. I Lakers arrivano comunque in finale dopo aver eliminato gli Houston Rockets, i Golden State Warriors e i Portland Trail Blazers. In finale assistono al primo dei sei titoli della coppia Michael Jordan-Scottie Pippen che battono Los Angeles in 5 partite, nonostante i Lakers si siano portati sull'1-0, espugnando in gara 1 Chicago.

L'anno dopo la squadra perde Magic, ritirato per la sua sieropositività, e lo stesso Divac gioca solo 36 partite a causa di un infortunio che non gli permette di contribuire come vorrebbe. Nei play-off arriva solo un'eliminazione al primo turno per mano dei Blazers. Stesso destino l'anno dopo quando l'eliminazione arriva per mano dei Suns in 5 partite. Divac però sale di livello come gioco personale, e occupa stabilmente il ruolo di centro titolare. La stagione 1993-1994 è quella più buia per i Lakers: con il ritiro di Worthy arriva l'assenza dalla post season, evento che non capitava dagli anni settanta. Divac si assesta su ottimi livelli, diventando il primo marcatore della squadra, anche se con una media piuttosto bassa (14,2 punti a partita). Con l'innesto di Cedric Ceballos e Nick Van Exel la squadra ritrova la spinta persa l'anno prima, arrivando al secondo turno dei play-off, dopo aver eliminato al primo turno i favoriti della Western Conference, i Seattle Supersonics; l'eliminazione arriva per mano dei San Antonio Spurs.

A metà della stagione 1995-1996 arriva la notizia shock del ritorno in campo di Magic, il grande amico di Divac. L'atmosfera viene galvanizzata dal carisma di Johnson, e si pensa ad una cavalcata nei play-off. È pertanto percepita come una grande delusione l'eliminazione al primo turno da parte dei Rockets. A fine campionato i dissapori sorti all'interno dello spogliatoio portano Magic al secondo e definitivo ritiro. Jerry West, il general manager della squadra, programma un'importante campagna acquisti, il cui obiettivo dichiarato è Shaquille O'Neal.

Divac diventa così un peso per la squadra, perché nessuno vorrebbe averlo in spogliatoio scontento del suo minutaggio, ed è chiaro che è incompatibile con O'Neal. Viene così ceduto ai Charlotte Hornets in cambio dei diritti su Kobe Bryant. Divac percepisce come un tradimento l'essere stato ceduto per un liceale.

A Charlotte Divac trova un'ottima squadra, composta principalmente dalla guardia Glen Rice e dall'ala Anthony Mason. La prima stagione è un successo dato che si compila un record che vede 54 vittorie a fronte di solo 28 sconfitte. Nei play-off arriva però la batosta, con l'eliminazione al primo turno in 3 partite per mano dei New York Knicks. L'anno dopo, nonostante il record peggiori, arrivando a 51 vittorie e 31 sconfitte, viene superato il primo turno, battendo gli Atlanta Hawks in 4 partite. Al secondo turno però gli Hornets si devono inchinare di fronte alla forza dei Bulls di Jordan che li eliminano in 5 partite. Nell'estate del 1998 Divac diventa free agent e decide di andare sul mercato.


Viene firmato dai Sacramento Kings per giocare da centro titolare e anche per dare una mano a Pedrag Stojakovic, connazionale di Divac appena arrivato a Sacramento. Sotto il coach Rick Adelman la squadra migliora in fretta, grazie anche al contributo di stelle come Chris Webber. Insieme a Webber Divac forma la migliore coppia di lunghi passatori, trovandosi alla perfezione nello schema Princeton Offense. Nei play-off arrivano però due eliminazioni precoci al primo turno, una da parte degli Utah Jazz, l'altra da parte dell'ex squadra di Divac, i Lakers. Proprio contro i Lakers inizia una rivalità causata da partite giocate spesso punto a punto e con vari contatti duri. Nella stagione 2000-2001 arriva il passaggio del turno contro i Suns, ma al secondo turno i lakers eliminano ancora i Kings. Divac combatte contro il migliore O'Neal della carriera, cercando di arrangiarsi come può contro un giocatore decisamente più forte fisicamente. L'anno dopo i Kings sono ormai maturi per la finale. Battono Jazz e Mavericks nei primi due turni per poi scontrarsi ancora con i Lakers nella finale di Conference. È una serie durissima combattuta in campo ma anche attraverso i giornali. Divac accusa O'Neal di fare sempre fallo in attacco e il centro dei Lakers afferma che Divac è un cascatore, un giocatore che non fa altro che buttarsi. Guidati da un maestoso Mike Bibby i Kings si portano sul 3-2, ma perdono gara 6 a Los Angeles. Gara 7 è in programma a Sacramento e per imporsi i Lakers hanno bisogno di un supplementare. Per Divac e i Kings è una beffa notevole. Nei due anni successivi i Kings si fermano troppo presto per le loro aspettative: nei play-off del 2003 vengono eliminati al secondo turno dai Mavericks anche a causa di un infortunio occorso a Webber. L'anno dopo sempre al secondo turno sono i Minnesota Timberwolves ad eliminarli. La beffa è che sia nel 2003 che nel 2004 i Kings perdono giocando gara 7.


A Sacramento comprendono che è finito un ciclo e che Divac comincia a non essere più il giocatore decisivo dei primi anni ai Kings. Nell'estate del 2004 Vlade è di nuovo free agent ed esprime il desiderio di tornare ai Lakers se i Kings non faranno un'offerta adeguata. I Kings non sono interessati a lui e il serbo si accasa di nuovo ai Lakers, orfani di O'Neal che nell'estate era stato ceduto ai Miami Heat. Divac però è in condizioni fisiche precarie e un'ernia lo costringe ad un'operazione chirurgica che lo tiene fermo per ben 67 partite, permettendogli di dare un contributo davvero esiguo. Nell'estate del 2005 annuncia il suo ritiro.

Divac è stato un giocatore che negli anni migliori della sua carriera aveva un'eccellente mobilità in rapporto alla sua mole. Dotato di ottimi movimenti in post basso, il suo forte resta il passaggio. È considerato a detta di tutti uno dei migliori se non il migliore centro passatore della storia. In carriera è l'unico giocatore insieme ad Abdul Jabbar e Hakeem Olajuwon ad avere collezionato almeno 13.000 punti, 9.000 rimbalzi, 3.000 assist e 1.500 stoppate. È stato convocato per l'All-Star Game nella stagione 2000-2001. Ha ottenuto l'inclusione nel migliore quintetto di rookie nella stagione 1989-1990. In carriera con la nazionale jugoslava prima e serba poi, vanta due medaglie d'argento alle Olimpiadi (Seul 1988 e Atlanta 1996) e una medaglia d'oro ai mondiali di Indianapolis nel 2002.

lunedì 6 agosto 2007

"Little Boy"

Il mattino del 6 agosto 1945, l'Aeronautica militare statunitense lanciò la bomba atomica "Little Boy" sulla città giapponese di Hiroshima, seguita tre giorni dopo dal lancio di "Fat Man" su Nagasaki.

Nel 1945, Hiroshima era una città di grande importanza militare e industriale. Vi erano anche alcune basi militari nelle vicinanze, come il quartier generale della Quinta Divisione e quello del Maresciallo Shunroku Hata, secondo quartier generale dell'esercito a cui faceva capo l'intero sistema difensivo del Giappone meridionale.
Hiroshima era una base minore, dedita al rifornimento e all'appoggio per le forze armate. La città era soprattutto un centro per le comunicazioni, per lo stoccaggio delle merci, e un punto di smistamento delle truppe. Era stata deliberatamente tenuta fuori dalle rotte dei bombardieri, proprio per permettere lo studio degli effetti di una bomba atomica in un ambiente ideale. La priorità per lo sgancio della bomba fu infine data proprio a Hiroshima a fronte della segnalazione che essa era l'unico, tra gli obiettivi, che non avesse al suo interno e nei dintorni campi per i prigionieri di guerra.

Il centro della città conteneva una quantità di edifici di cemento armato, e alcune strutture più leggere. In periferia, l'area era congestionata da una miriade di piccole strutture di legno, usate come locali da lavoro, posizionate tra una casa e l'altra. Alcuni stabilimenti industriali si estendevano non lontano dal limite periferico della città. Le case erano di legno, con soffitti leggeri, e molti edifici industriali avevano a loro volta pareti a incastro di legno. La città nella sua interezza era potenzialmente ad altissimo rischio d'incendio.

La popolazione di Hiroshima aveva raggiunto un picco di 381.000 unità prima della guerra, ma prima del bombardamento atomico la popolazione era rapidamente diminuita a causa di un'evacuazione generale ordinata dal governo giapponese, tanto che il 6 agosto si contavano circa 255.000 abitanti. Si calcola questa cifra sulla base dei dati mantenuti per l'approvvigionamento della popolazione (che era razionato), e le stime sugli operai e sui soldati presenti in città al momento del bombardamento sono, di fatto, molto poco accurate.

Hiroshima divenne quindi l'obiettivo primario per l'attacco nucleare statunitense, quando questo venne lanciato il 6 agosto 1945. Il B-29 Enola Gay, pilotato e comandato dal colonnello Paul Tibbets, partì dalla base area di Tinian, nel Pacifico occidentale, con una tabella di volo che prevedeva di raggiungere il Giappone in circa 6 ore. La scelta della data del 6 agosto si basò sul fatto che nei giorni precedenti diverse nubi stratificate coprivano la città, mentre il giorno dell'attacco il tempo era ottimo.
Il capitano William Parsons, che aveva ricevuto un addestramento intensivo, armò la bomba dopo il decollo, dato che si era deciso di minimizzare i rischi durante le fasi iniziali del volo. Tutti i dettagli, la pianificazione precisa della tabella di volo, la bomba di gravità, l'armamento della bomba con i suoi 60 kg di uranio-235, tutto venne studiato nei minimi dettagli, e tutto si svolse così come era stato stabilito a tavolino.

Circa un'ora prima del bombardamento, la rete radar giapponese lanciò un allarme immediato, rilevando l'avvicinamento di un gran numero di velivoli americani diretti nella zona meridionale del Giappone. L'allarme venne diffuso anche attraverso trasmissioni radio in moltissime città del Giappone, e fra queste anche Hiroshima. Gli aerei si avvicinarono alle coste dell'arcipelago giapponese a un'altezza molto elevata.

Poco prima delle 08:00, la stazione radar di Hiroshima stabilì che il numero di aerei entrati nello spazio aereo giapponese era esiguo – probabilmente non più di tre –, perciò l'allarme aereo venne ridimensionato (il comando militare giapponese infatti aveva deciso, per risparmiare il carburante, di non far alzare in volo i propri aerei per le formazioni aeree americane di piccole dimensioni). I tre aeroplani americani erano i bombardieri Enola Gay (chiamato così prima del bombardamento usando il nome della madre del colonnello Tibbets), The Great Artist, e un altro aereo, in seguito chiamato Necessary Evil (l'unica funzione di questo aereo fu quello di documentare, attraverso una serie di fotografie, gli effetti dell'impiego dell'arma atomica).
Il normale allarme aereo non venne azionato, dato che veniva normalmente attivato solo all'approssimarsi dei bombardieri.

Alle 08:15 l'Enola Gay lanciò "Little Boy" sul centro di Hiroshima. L'esplosione si verificò a circa 600 metri dal suolo, con uno scoppio equivalente a 13 chilotoni di TNT, uccidendo sul colpo (si tratta di una stima) tra le 70.000 e le 80.000 persone. Tra questi almeno 11 prigionieri di guerra statunitensi. Circa il 90% degli edifici (anche questa è una stima) venne completamente raso al suolo o irrimediabilmente danneggiato.

L'avvelenamento da radiazioni e/o le necrosi provocarono malattia e morte successive al bombardamento per circa l'1% di coloro che erano sopravvissuti all'esplosione iniziale. Alla fine del 1945, ulteriori migliaia di persone morirono per via dell'avvelenamento da radiazioni, portando il totale di persone uccise ad Hiroshima nel 1945 a circa 90.000. Da allora circa un altro migliaio di persone morì per cause legate alle radiazioni. (Stando a quanto affermato dalla città di Hiroshima il 6 agosto 2005, il numero totale di vittime della bomba atomica di Hiroshima fu di 242.437. Questa cifra include tutti coloro che si trovavano in città al momento dell'esplosione o che furono successivamente esposti al fallout ed erano morti prima di tale censimento.)

Alcuni degli edifici in calcestruzzo armato ad Hiroshima erano costruiti in modo molto resistente per via del pericolo di terremoto in Giappone e le ossature di questi edifici non crollarono, sebbene si trovassero molto vicino al centro della zona danneggiata della città. Al momento della detonazione in aria della bomba atomica, l'esplosione si riversò verso il basso più che lateralmente, il che favorì maggiormente la sopravvivenza della Sala della Prefettura per la Promozione Industriale, ora comunemente conosciuta come Genbaku, o Cupola della bomba-A, progettata e realizzata dall'architetto ceco Jan Letzel.
Le rovine furono chiamate Monumento della Pace di Hiroshima e vennero rese un sito Patrimonio dell'umanità dell'UNESCO nel 1996, nonostante le obiezioni degli Stati Uniti e della Cina.

domenica 5 agosto 2007

Rino Gaetano: ma il cielo è sempre più blu

Nato a Crotone, in Calabria, il 29 ottobre 1950, Rino Gaetano (pseudonimo di Salvatore Antonio Gaetano) si trasferì a Roma a dieci anni per motivi di lavoro dei genitori e nella città capitolina visse per tutto il resto della sua vita.
Dopo le prime esibizioni al Folkstudio, viene scoperto da Vincenzo Micocci, e il debutto discografico avviene nel 1973: usando lo pseudonimo Kammamuri's, pubblica per la It il 45 giri I love you Marianna (sul lato B Jaqueline); prodotto da Antonello Venditti e Piero Montanari, la canzone del lato A potrebbe essere interpretata come un'orecchiabile metafora sulla marijuana. In realtà qui si riferisce all'affetto che lo legava alla nonna Marianna, con la quale giocava da piccolo, e gioca sul doppio senso della parola.

Nel 1974 pubblicò il suo primo album, Ingresso libero, che non ottenne particolari riscontri di vendita né di critica, pur mostrando già i segni dello stile estroso e strampalato che avrebbe caratterizzato la sua breve ma folgorante carriera; tra i brani presenti da ricordare Ad esempio a me piace il sud (già nota perché incisa l'anno precedente da Nicola Di Bari con un testo leggermente diverso) e I tuoi occhi sono pieni di sale.
Il successo arrivò l'anno dopo con il 45 giri Ma il cielo è sempre più blu.

Nel 1978 Rino Gaetano partecipò al Festival di Sanremo con la canzone Gianna (canzone con la quale non voleva presentarsi, in quanto lui avrebbe preferito Nuntereggaepiù che comunque avrà un gran successo in seguito), con cui si piazzò terzo alle spalle di Anna Oxa e Matia Bazar. La hit parade ribaltò i risultati del Festival, e Gianna rimase per diverse settimane al primo posto in classifica.

In realtà al Festival non voleva proprio partecipare ma costretto dalla casa discografica, per ripicca presentò una canzone riadattata sugli accordi di Berta Filava cambiando il testo e usando soprattutto la chitarra (questo dichiarò lui). Ottenne il risultato che si aspettava e confermò come una pseudo cover senza troppe pretese e impegno artistico poteva, e può ancora, concorrere ad una manifestazione canora che, secondo il suo parere, era sempre più in declino.
Artista estremamente poliedrico, nel 1981 recitò nel Pinocchio di Carmelo Bene a Roma nel ruolo della volpe.

Purtroppo la carriera di Rino Gaetano si interruppe tragicamente con la sua morte, avvenuta a soli trent'anni, in un incidente stradale a Roma il 2 giugno 1981, quando, al volante della sua Volvo 343, (qualche giorno prima la sua Volvo si distrusse in un incidente del tutto simile e lui rimase illeso, comprò una macchina del tutto identica ma subì un altro, fatale, incidente) si schiantò contro un camion sulla via Nomentana all'altezza dell'incrocio con via XXI aprile. Sia pur prontamente soccorso, in fin di vita, venne rifiutato da cinque ospedali, una circostanza sorprendentemente simile a quella narrata in uno dei suoi primi testi, e morì per la gravità delle ferite riportate, a pochi giorni di distanza dalla data fissata per il suo matrimonio. È sepolto al cimitero del Verano.

Il primo libro su di lui, che è anche la sua prima biografia ufficiale, uscì nel 2001, a 20 anni esatti dalla sua scomparsa.

Australia, un aborigeno viene risarcito per essere stato tolto alla famiglia.

Quando ancora andava a gattoni, lo stato sottrasse Bruce Trevorrow alla sua famiglia e lo affidò a un'altra. Ora, per decisione della Corte suprema dell'Australia del sud, questo australiano di 50 anni riceverà circa 18 euro per ogni giorno passato da quel momento. Perché Trevorrow fa parte di quella che è stata ribattezzata “la generazione rubata”: circa 100mila bambini aborigeni, tolti forzatamente alle loro famiglie e cresciuti poi da genitori bianchi tra il 1910 e gli anni Settanta, senza poter avere contatti con quelli veri. Ed è il primo a cui sia stato concesso un risarcimento.

Nel giorno di Natale del 1957, quando aveva solo 13 mesi, Trevorrow fu portato in un ospedale di Adelaide per alcuni dolori allo stomaco. Nelle carte mediche, fu scritto che il bambino era senza genitori, trascurato e malnutrito. Falso: il piccolo Bruce era semplicemente l'ennesima vittima della politica australiana – federale e dei singoli stati – di “salvare” bambini aborigeni o di sangue misto affidandoli a famiglie bianche. Nella convinzione che le comunità native fossero inferiori e senza possibilità di elevarsi socialmente, secondo questo ragionamento, almeno si poteva dare ai bambini un altro futuro. Trevorrow non rivide più il padre. E nonostante le continue suppliche della vera madre alle autorità, fu in grado di rivedere la sua famiglia solo dopo dieci anni.

Il caso di Trevorrow è giunto a conclusione a un anno e mezzo dall'inizio del processo. La Corte ha ordinato allo stato dell'Australia del sud di ricompensare Trevorrow con 525mila dollari australiani (quasi 328mila euro), per i danni che lo sradicamento forzato dalla sua famiglia gli ha causato nella vita. L'uomo è riuscito a provare, anche confrontando il suo sviluppo personale con quello dei fratelli rimasti nella famiglia originaria, che la sottrazione gli ha procurato crisi di identità, depressione, problemi di alcolismo e una vita professionale precaria. “Ho pensato che non saremmo mai arrivati a questo giorno”, ha dichiarato dopo la sentenza, “ma invece è successo, e ora sono in pace per iniziare una nuova vita”.

Il primo ministro dell'Australia del sud, Mike Rann, ha detto che il governo non farà ricorso contro il verdetto perché Trevorrow “ne ha già passate abbastanza. La cosa più compassionevole da fare è porre fine a qualsiasi incertezza per lui. E' tempo che sia fatta giustizia”. Ma se la vicenda di Trevorrow ha avuto il lieto fine, le altre decine di migliaia di appartenenti alla “generazione rubata” non possono dire altrettanto. Un'inchiesta nazionale sul fenomeno, realizzata nel 1997, confermò i danni psicologici per quei bambini, esortando le autorità federali e statali a scusarsi e a risarcire. Ma il primo ministro John Howard si è sempre rifiutato di porgere le scuse da parte del governo australiano, sostenendo di non poter far proprie le colpe dei suoi predecessori. Di conseguenza, con l'eccezione della Tasmania, nessuna autorità pubblica in Australia ha mai pensato a istituire un fondo per risarcire i bambini aborigeni trapiantati in famiglie bianche. E anche dopo la sentenza per Trevorrow, il ministro australiano per gli Affari indigeni, Mal Brough, ha escluso pagamenti collettivi da parte del governo.

venerdì 3 agosto 2007

La capoeira

Una delle discipline che negli ultimi anni ha riscosso, e continua a riscuotere, un grande successo è la capoeira. Cosa è la capoeira? Una arte marziale, una forma di combattimento o una danza? Un po’ tutte queste cose insieme.

La storia della capoeira è inscindibilmente legata alla storia della schiavitù; i portoghesi che colonizzarono il Brasile vi portarono gli schiavi presi da diverse regioni africane, tra il 1920 e il 1950 gli olandesi conquistarono la parte settentrionale del paese e questo permise la fuga degli schiavi che poi si organizzarono in piccoli villaggi. Successivamente i portoghesi tentarono di restaurare l’ordine preesistente e gli schiavi per resistere adoperarono una forma di combattimento originario dell’Africa.

Queste tecniche di difesa successivamente furono messe fuori legge, con il pretesto che risultavano eccessivamente violente. Nel 1937 il presidente pose fine al bando e dal 1974 la capoeira è sport nazionale brasiliano.

I maestri originari sono circondati da un alone di leggenda e di loro si sa poco, i loro nomi sono Nascimento Grande e Manduca Da Praia.

Oggi la capoeira ha perso i suoi connotati di lotta ed è apprezzata maggiormente per la grande energia e coinvolgimento che riesce ad esprimere.

Caratteristiche di questo sport sono: la spettacolarità delle tecniche che si eseguono quasi esclusivamente con le gambe, da fermo, in salto e in acrobazia; la presenza della musica dovunque c’è la capoeira. Proprio la musica dà l ritmo a questa “danza”, che si sviluppa tra due avversari, che sono circondati dalla “ roda “ cioè da un cerchio composto da altri atleti con cui si alternano al centro, con un semplice tocco delle mani, per eseguire i movimenti che sono scanditi dal suono del berimbau e delle percussioni.

Proprio il berimbau è lo strumento, considerato quasi sacro, che accompagna con il suo suono la capoeira; è un bastone di legno che tiene in tensione un filo metallico a cui è legata una zucca aperta che serve come cassa armonica.
Poiché non è previsto alcun contatto tra gli atleti, non è necessario indossare delle particolari protezioni, l’ abbigliamento tipico consiste in un pantalone bianco o con colori molto vivaci in cui spicca un cordoncino che indica il grado di esperienza dell’atleta.

giovedì 2 agosto 2007

2 agosto 1980: la strage di Bologna

La strage di Bologna è stato uno degli atti terroristici più gravi che abbiano insanguinato l'Italia nel secondo dopoguerra, avvenuto Sabato 2 agosto 1980.
Alle 10.25 nella sala d'aspetto della Stazione di Bologna Centrale esplose un ordigno a tempo contenuto in una valigia abbandonata, uccidendo ottantacinque persone, ferendone oltre duecento.
Per Bologna e per l'Italia fu una drammatica presa di coscienza della recrudescenza del terrorismo.
La detonazione (prodotta da una miscela di tritolo e T4) si udì nel raggio di molti chilometri e distrusse gran parte della stazione investendo in pieno il treno Ancona-Chiasso in sosta al primo binario.
In quel giorno la stazione era affollata di turisti e persone in partenza o di ritorno dalle vacanze.

La città incredula ed impreparata per una simile evenienza reagì con orgoglio e prontezza: non essendo sufficienti le ambulanze per trasportare i feriti agli ospedali cittadini, vennero impiegati anche autobus e taxi.

Subito dopo l'attentato, il governo presieduto da Francesco Cossiga e le forze di polizia attribuirono lo scoppio a cause fortuite e poi attribuirono la strage alle Brigate rosse.
Si trattava di un depistaggio delle indagini, depistaggio che apparve subito evidente a molti, causò numerose polemiche negli anni successivi e favorì la nascita di teorie cospiratorie correlate alla cosiddetta strategia della tensione.

Lentamente e con fatica, attraverso una complicata e discussa vicenda politica e giudiziaria, e grazie alla spinta civile dell'Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 si giunse ad una sentenza definitiva di Cassazione il 23 novembre 1995: vennero condannati all'ergastolo, quali esecutori dell'attentato, i neofascisti Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, che si sono sempre dichiarati innocenti, mentre l'ex capo della P2 Licio Gelli, l'ex agente del SISMI Francesco Pazienza e gli ufficiali del servizio segreto militare Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte vennero condannati per il depistaggio delle indagini.
Il 9 giugno 2000 la Corte d'Assise di Bologna emise nuove condanne per depistaggio: nove anni di reclusione per Massimo Carminati, estremista di destra, e quattro anni e mezzo per Federigo Mannucci Benincasa, ex direttore del SISMI di Firenze, e Ivano Bongiovanni, delinquente comune.
Eventuali mandanti della strage non sono mai stati scoperti.
Ultimo imputato per la strage è Luigi Ciavardini, con condanna a 30 anni confermata nel 2007. Anche lui continua a dichiararsi innocente.

A causa del protrarsi negli anni delle vicende giudiziarie e dei numerosi comprovati depistaggi, intorno ai veri esecutori e ai mandanti dell'attentato si sono sempre sviluppate numerose ipotesi e strumentalizzazioni politiche divergenti dai fatti processuali che hanno portato alle condanne definitive dei presunti esecutori materiali della strage.

Il cippo commemorativo nella stazione di Bologna contiene l'elenco delle "vittime del terrorismo fascista". Durante il mandato di Giorgio Guazzaloca, sindaco di Bologna dal 1999 al 2004, l'esponente locale di AN Massimiliano Mazzanti propose al sindaco di non citare più la presunta "matrice fascista" della strage nella commemorazione ufficiale del 2 agosto. Nonostante le critiche durissime dell'opposizione, il sindaco, pur non ammettendo di aver accolto l'invito che veniva da una parte della sua maggioranza, così fece per tutte e quattro le prime celebrazioni che lo videro protagonista. Dal 2004, invece, il nuovo sindaco, Sergio Cofferati, è tornato a scandire la vecchia formula durante la manifestazione ufficiale.
Stando quanto riportato dai media nel 2004, Francesco Cossiga, in una lettera indirizzata a Enzo Fragalà, capogruppo di Alleanza Nazionale nella commissione Mitrokhin, ipotizza un coinvolgimento palestinese (a mano del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e del gruppo Separat di Iliz Ramirez Sanchez, al secolo "comandante Carlos") dietro l'attentato.
Invece dalla sua cella, a Parigi, il terrorista Ilic Ramirez Sanchez afferma che «la commissione Mitrokhin cerca di falsificare la storia» e che «a Bologna a colpire furono CIA e Mossad».
Nel maggio 2007 il figlio di Massimo Sparti (delinquente legato alla banda della Magliana e principale accusatore di Fioravanti) dichiara «mio padre nella storia del processo di Bologna ha sempre mentito».

Il 2 agosto è considerata la giornata in memoria di tutte le stragi, e la città di Bologna con l'Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 organizzano ogni anno un concorso internazionale di composizione musicale con concerto in Piazza Maggiore.
Per ricordare la strage, nella ricostruzione dell'ala della stazione distrutta è stato creato uno squarcio nella muratura. All'interno, nella sala d'aspetto, è stata mantenuta la pavimentazione originale nel punto dello scoppio. Inoltre il settore ricostruito presenta l'intonaco esterno liscio e non "bugnato" come tutto il resto del fabbricato, questo perché sia immediatamente riconoscibile e più visibile. Ancora, è stato mantenuto intatto uno degli orologi nel piazzale antistante la stazione ferroviaria, quello che si fermò ed è tuttora fermo alle 10.25. Qualche tempo dopo la strage in effetti l'orologio venne rimesso in funzione, ma di fronte a decise rimostranze le Ferrovie convennero sull'opportunità che quelle lancette rimanessero ferme a perenne ricordo.

Le vittime:
Antonella Ceci, anni 19
Angela Marino, anni 23
Leo Luca Marino, anni 24
Domenica Marino, anni 26
Errica Frigerio In Diomede Fresa, anni 57
Vito Diomede Fresa, anni 62
Cesare Francesco Diomede Fresa, anni 14
Anna Maria Bosio In Mauri, anni 28
Carlo Mauri, anni 32
Luca Mauri, anni 6
Eckhardt Mader, anni 14
Margret Rohrs In Mader, anni 39
Kai Mader, anni 8
Sonia Burri, anni 7
Patrizia Messineo, anni 18
Silvana Serravalli In Barbera, anni 34
Manuela Gallon, anni 11
Natalia Agostini In Gallon, anni 40
Marina Antonella Trolese, anni 16
Anna Maria Salvagnini In Trolese, anni 51
Roberto De Marchi, anni 21
Elisabetta Manea Ved. De Marchi, anni 60
Eleonora Geraci In Vaccaro, anni 46
Vittorio Vaccaro, anni 24
Velia Carli In Lauro, anni 50
Salvatore Lauro, anni 57
Paolo Zecchi, anni 23
Viviana Bugamelli In Zecchi, anni 23
Catherine Helen Mitchell, anni 22
John Andrew Kolpinski, anni 22
Angela Fresu, anni 3
Maria Fresu, anni 24
Loredana Molina In Sacrati, anni 44
Angelica Tarsi, anni 72
Katia Bertasi, anni 34
Mirella Fornasari, anni 36
Euridia Bergianti, anni 49
Nilla Natali, anni 25
Franca Dall'olio, anni 20
Rita Verde, anni 23
Flavia Casadei, anni 18
Giuseppe Patruno, anni 18
Rossella Marceddu, anni 19
Davide Caprioli, anni 20
Vito Ales, anni 20
Iwao Sekiguchi, anni 20
Brigitte Drouhard, anni 21
Roberto Procelli, anni 21
Mauro Alganon, anni 22
Maria Angela Marangon, anni 22
Verdiana Bivona, anni 22
Francesco Gomez Martinez, anni 23
Mauro Di Vittorio, anni 24
Sergio Secci, anni 24
Roberto Gaiola, anni 25
Angelo Priore, anni 26
Onofrio Zappala', anni 27
Pio Carmine Remollino, anni 31
Gaetano Roda, anni 31
Antonino Di Paola, anni 32
Mirco Castellaro, anni 33
Nazzareno Basso, anni 33
Vincenzo Petteni, anni 34
Salvatore Seminara, anni 34
Carla Gozzi, anni 36
Umberto Lugli, anni 38
Fausto Venturi, anni 38
Argeo Bonora, anni 42
Francesco Betti, anni 44
Mario Sica, anni 44
Pier Francesco Laurenti, anni 44
Paolino Bianchi, anni 50
Vincenzina Sala In Zanetti, anni 50
Berta Ebner, anni 50
Vincenzo Lanconelli, anni 51
Lina Ferretti In Mannocci, anni 53
Romeo Ruozi, anni 54
Amorveno Marzagalli, anni 54
Antonio Francesco Lascala, anni 56
Rosina Barbaro In Montani, anni 58
Irene Breton In Boudouban, anni 61
Pietro Galassi, anni 66
Lidia Olla In Cardillo, anni 67
Maria Idria Avati, anni 80
Antonio Montanari, anni 86