domenica 30 settembre 2007

Bob Marley

Robert Nesta Marley, meglio conosciuto come Bob, nacque nel villaggio di Nine Mile nel Saint Ann Parish, in Giamaica, il 6 febbraio 1945. Suo padre, Norval Sinclair Marley era un giamaicano bianco di discendenza inglese, nato nel 1895 da genitori originari del Sussex. Norval era un capitano della marina, oltre che un sovrintendente delle piantagioni, quando sposò Cedella Booker, all'epoca diciottenne Giamaicana di colore. Norval provvedeva al sostentamento economico della moglie e del figlio, sebbene li vedesse raramente, essendo spesso in viaggio. Bob aveva appena 10 anni quando il padre morì a causa di un infarto nel 1955, all'età di 60 anni.

Robert fu vittima di pregiudizi razziali da giovane, a causa delle sue origini razziali miste, ed affrontò la questione della sua identità razziale durante tutta la sua vita. Una volta pensò:
Io non ho pregiudizi contro me stesso. Mio padre era bianco e mia madre era nera. Mi chiamano mezza-casta, o qualcosa del genere. Ma io non parteggio per nessuno, né per l'uomo bianco né per l'uomo nero. Io sto dalla parte di Dio, colui che mi ha creato e che ha fatto in modo che io venissi generato sia dal nero che dal bianco.

Bob e la madre si trasferirono, dopo la morte di Norval a Trenchtown, un sobborgo di Kingston, la capitale della Giamaica. Fu costretto ad imparare l'autodifesa, dato che fu vittima di ripetuti episodi di bullismo, causati sia dalla sua origine razziale, sia dalla sua bassa statura (era alto 163 cm). Riuscì quindi a guadagnarsi una reputazione a causa della sua forza fisica, che gli portò il soprannome di "Tuff Gong"".
Marley divenne amico di Neville "Bunny" Livingston, (più tardi conosciuto come Bunny Wailer) con cui iniziò a suonare. Bob lasciò la scuola all'età di 14 anni e cominciò a lavorare come apprendista del fabbro\saldatore locale. Nel loro tempo libero, Bob e Bunny suonavano con Joe Higgs, un cantante locale e devoto Rastafari, che viene riconosciuto da molti come mentore di Bob. Durante una jam session con Higgs e Livingston, Marley incontrò Peter McIntosh, più tardi conosciuto come Peter Tosh, il quale aveva ambizioni musicali simili.

Nel 1962, all'età di 16 anni, Bob registra i suoi primi due singoli, Judge Not e One Cup of Coffee, con il produttore musicale del luogo, Leslie Kong. Questi dischi, che furono rilasciati dall'etichetta Beverly's sotto lo pseudonimo di Bobby Martell, attirarono poco l'attenzione del mercato.
Nel 1963 Bob Marley, Bunny Livingston, Peter McIntosh, Junior Braithwaite, Beverley Kelso e Cherry Smith fondarono un gruppo ska e rocksteady chiamato "The Teenagers". Più tardi, il nome fu cambiato in "The Wailing Rudeboys", quindi in "The Wailing Wailers", e infine in "The Wailers". Nel 1966 Braithwaite, Kelso e Smith lasciarono la band al vero e proprio cuore del gruppo, formato da Bob Marley, Bunny Livingston e Peter McIntosh.

Marley divenne quindi il leader del gruppo, il cantante, e lo scrittore della maggior parte dei testi. La maggior parte dei primi lavori del gruppo, incluso il primo singolo Simmer Down, fu prodotto da Coxsone Dodd allo Studio One. Simmer Down raggiunse l'apice delle classifiche Giamaicane nel 1964 e propose i Wailers come uno dei migliori gruppi nazionali. Proseguirono con canzoni come "Soul Rebel" e "400 Years".

Nel 1966 Bob Marley sposa Rita Anderson Marley,una componente delle I Threes,(Rita Marley, Marcia Griffiths e Judy Mowatt). Da lei ha avuto tre dei suoi tredici figli (due adottati dalla precedente relazione di Rita, tre avuti con la stessa, e altri 8 con altre donne), tra i quali David, Ziggy Marley, Stephen Marley e Damian Marley che continuano la tradizione della musica del padre con la loro band, i Melody Makers. Dopo il matrimonio, la coppia si trasferisce per alcuni mesi nella residenza della madre di Bob a Wilmington, nel Delaware. Dopo essere tornato in Giamaica, Bob aderisce al movimento Rastafariano, e comincia a sfoggiare i suoi caratteristici dreadlock. Dopo un litigio con Dodd, Bob Marley e il resto del gruppo si uniscono alla band di Lee "Scratch" Perry, The Upsetters. Sebbene l'alleanza sia durata meno di un anno, molti ritengono che la produzione migliore dei Wailers si concentri in questo periodo. Marley e Perry si separarono dopo una disputa sui diritti di registrazione, ma rimasero amici e lavorarono ancora insieme.

Tra il 1968 e il 1972 Bob e Rita Marley, Peter McIntosh e Bunny Livingston produssero un re-cut di alcune vecchie canzoni per la JAD Records a Kingston e a Londra, nell'intento di esportare il sound dei Wailers. Più tardi, Livingston confessò che "quelle canzoni non avrebbero mai dovuto essere pubblicate su un album... erano solo delle demo da fare ascoltare a delle case discografiche..."
Il primo album dei Wailers, Catch a Fire, fu rilasciato su scala mondiale nel 1973, riscuotendo successo. Fu seguito l'anno dopo da Burnin', che conteneva le canzoni "Get Up, Stand Up" ed "I Shot the Sheriff" di cui Eric Clapton produsse una cover, contribuendo ad elevare il profilo internazionale di Bob Marley.

I Wailers si sciolgono nel 1974, quando ognuno dei tre componenti fondamentali prova a continuare la propria carriera come solista. Le ragioni dello scioglimento affondano tuttora nel mistero. Qualcuno asserisce che ci fosse disaccordo tra Marley, Tosh e Livingston riguardo le performance, altri pensano semplicemente che Bunny Wailer e Peter Tosh preferissero a tal punto lavorare da solisti.
Nonostante lo scioglimento, Bob Marley continuò a suonare sotto il nome di "Bob Marley & the Wailers". I nuovi componenti della band di sostegno erano i fratelli Carlton, Aston "Family Man" Barrett" rispettivamente alla batteria e al basso, Junior Marvin e Al Anderson alla chitarra, Tyrone Downie e Earl "Wya" Lindo alle tastiere, Alvin "Seeco" Patterson alle percussioni. Le "I Threes" composte da Judy Mowatt, Marcia Griffiths e dalla moglie di Bob, Rita, all'accompagnamento vocale. Nel 1975 Bob Marley irrompe sul mercato internazionale con il suo primo storico singolo, "No Woman, No Cry", dall'album Natty Dread. Questo fu seguito dal successo del 1976, Rastaman Vibration, che rimase per ben quattro settimane nella top ten di Billboard Charts negli Stati Uniti.

Nel dicembre 1976, due giorni prima di "Smile Jamaica" un concerto organizzato dal primo ministro della Giamaica, Micheal Manley, allo scopo di alleggerire le tensioni tra i due gruppi politici in guerra, Bob, la moglie Rita e il loro manager Don Taylor subirono un attacco da parte di un gruppo armato composto da ignoti nella residenza di Bob. Taylor e Rita riportarono ferite gravi, che però furono riparate completamente. Bob riportò solo delle ferite lievi al petto e al braccio. Si ritiene che tale attacco fosse stato causato da motivi politici, essendo visto il concerto come un modo di supportare il primo ministro Manley. Nonostante tutto, il concerto si tenne e Bob Marley si esibì come in programma.

Bob Marley si trasferì dalla Giamaica in Inghilterra nel 1976, dove registrò gli album Exodus e Kaya. Exodus rimase nelle classifiche inglesi per ben 56 settimane consecutive. Includeva singoli di spessore come "Exodus", "Jamming", "One Love" e "Waiting in Vain". In Inghilterra, Marley fu arrestato per possesso di piccole quantità di cannabis, mentre viaggiava verso Londra.
Nel luglio 1977 gli fu diagnosticato un melanoma maligno a un alluce a seguito di una partita di calcio, ma egli rifiutò le cure anche a causa della sua religione (Rastafarianesimo) secondo cui il corpo umano deve rimanere "integro".
Nel 1978 Bob Marley organizza un nuovo concerto politico in Giamaica, dal nome "One Love Peace Concert", sempre nel tentativo di arrestare l'ostilità tra i due partiti in guerra. Su espressa richiesta di Marley, i due leader rivali, Manley ed Edward Seaga si incontrarono sul palco e si diedero la mano.
Nel 1979 fu invece prodotto un album pregno di significati politici, "Survival", contenente canzoni come "Zimbabwe" "Africa Unite", "Wake Up and Live" e "Survival", che riportavano l'attenzione di Marley alle sofferenze dei popoli africani. Agli inizi del 1980 fu invitato alle celebrazioni del 17 aprile per la indipendenza dello Zimbabwe.
Nel 1980 il disco Urprising segna la fine della produzione di Bob Marley. Si tratta di un disco pregno di significato religioso, che contiene singoli come "Redemption Song" e "Forever Loving Jah".

Il cancro, nel frattempo, si estese dalla pelle dell'alluce destro al cervello, ai polmoni, al fegato, e allo stomaco. Dopo aver suonato in due concerti al Madison Square Garden, Bob collassò mentre si recava al Central Park di New York per fare jogging. Il 23 settembre 1980 Bob tenne il suo ultimo concerto allo Stanley Theater a Pittsburgh. Dopo l'evento, Bob si reca a Monaco, in Germania, per un consulto medico dal dr. Josef Issels. Purtroppo però il tumore è troppo esteso per essere curato.
Un ulteriore peggioramento si avverte nel volo di ritorno dalla Germania verso la Giamaica. Il volo viene quindi deviato in direzione di Miami, dove Bob viene ricoverato presso il Cedar of Lebanon Hospital, dove muore la mattina dell'11 Maggio 1981. Le ultime parole di Bob furono rivolte al figlio Ziggy Marley: "Money can't buy life".

Bob Marley ricevette funerali di stato in Giamaica, con elementi combinati dei riti delle tradizioni dell'ortodossia etiopica e Rastafari. Fu sepolto in una cappella vicino al suo luogo di nascita, insieme alla sua Gibson Les Paul, il suo pallone da calcio, una pianta di marijuana, un anello che indossava ogni giorno, donatogli dal principe etiope Asfa Wossen e una Bibbia. Un mese dopo i funerali, fu riconosciuto a Bob Marley il Jamaican Order of Merit.
Nel 1983 viene rilasciato un album postumo dal titolo Confrontation, che contiene canzoni e materiale registrato durante la vita del cantante, che comprende la celebre Buffalo Soldier.
Nel 2001 Bob Marley è stato insignito del premio Grammy alla carriera. Sempre del 2001 è il documentario Rebel Music, che ripercorre la sua vita.
Nell'estate del 2006 la città di New York ha nominato una porzione di Church Avenue che va da Ramsen Avenue alla novantottesima strada, nell'East Flatbush di Brooklyn, Bob Marley Boulevard.
Bob Marley è considerato dal suo popolo una guida spirituale e ogni 6 febbraio in Giamaica vi è una festa nazionale in suo onore.

venerdì 28 settembre 2007

Myanmar: situazione dei diritti umani

Il primo regno birmano risale all’anno Mille. Da allora, per quasi un millennio, si susseguirono invasioni, smembramenti e riunificazioni del Paese. Nel 1800, la dinastia al potere tentò mire espansionistiche in India e si scontrò con gli interessi della Compagnia inglese delle Indie. Seguì un secolo di conflitti finché, nel 1919, la Birmania divenne una provincia dell’impero anglo-indiano. Quasi trent’anni di lotte, prima con gli inglesi e poi con le forze di occupazione giapponesi durante la seconda guerra mondiale, portarono all’indipendenza della Birmania nel 1948. La democrazia durò fra alti e bassi fino al 1962, quando un colpo di stato militare vi pose fine. La storia recente delle violazioni dei diritti umani in Myanmar comincia nell’estate del 1988, quando decine di migliaia di persone scesero in piazza per protestare contro 26 anni di governo militare e contro la sua politica economica. L’esercito reagì con estrema violenza aprendo il fuoco in più occasioni sulla folla inerme. Tra i caduti durante le dimostrazioni e quelli prelevati dalle loro abitazioni e uccisi nei giorni seguenti, i morti furono circa 3000.

Tuttavia, dopo poche settimane, la giunta annunciò libere elezioni; si venne allora a creare un fronte di opposizione politica che ha tuttora in Aung San Suu Kyi, figlia del gen. Aung San, considerato l’eroe dell’indipendenza birmana, la sua esponente più autorevole. Le elezioni si tennero nel maggio del 1990, in un clima di pesanti intimidazioni da parte dei militari che avevano arrestato la maggior parte dei leader politici e dei candidati dell’opposizione, fra cui Aung San Suu Kyi, continuando in tutto il paese una massiccia politica di repressione. La Lega nazionale per la democrazia (Nld) ottenne l’80% dei voti, ma al nuovo Parlamento non venne mai consentito di riunirsi. Tra il settembre 1990 e il febbraio del 1991, almeno altri 75 parlamentari, oltre a quelli che al momento delle elezioni si trovavano già in carcere o agli arresti domiciliari, furono arrestati e poi condannati per “alto tradimento” o per “complicità in alto tradimento”. Negli anni successivi il governo birmano si è distinto per la sua politica repressiva, rivolta soprattutto contro le espressioni di dissenso e nei confronti della popolazione civile appartenente alle numerose minoranze etniche.

PRIGIONIERI POLITICI
Attualmente i prigionieri politici in carcere o agli arresti domiciliari sono più di un migliaio. Molti in attesa di processo, altri condannati a pene che arrivano fino a 50 anni di reclusione. Fra loro ci sono appartenenti all’Nld, monaci, studenti, operai e chiunque si sia reso colpevole di aver avuto contatti con birmani esuli all’estero o aver espresso dissenso nei confronti del governo. Nel corso dell’ultimo decennio, almeno 45 di loro sono morti, altri vivono in condizioni estremamente precarie a seguito delle torture riportate al momento dell’arresto o nel corso della detenzione. Amnesty international (AI) è preoccupata da anni per le loro condizioni di salute, a causa di torture fisiche e psicologiche e della pressoché totale mancanza di assistenza medica. Fino a oggi, le richieste di AI per la tutela dei diritti umani dei prigionieri politici sembrano essere cadute nel vuoto, né ha condotto a nulla la richiesta di un’amnistia generalizzata per tutti i prigionieri politici rivolta qualche anno fa dall’allora Relatore speciale per Myanmar delle Nazioni Unite, Paulo Sergio Pinhero

LAVORO FORZATO
Il lavoro forzato è pratica comune in Myanmar. Vi sono sottoposti prigionieri politici e comuni, insieme a persone appartenenti alle minoranze etniche. Il lavoro forzato non retribuito è una violazione della Convenzione N. 29 dell'Organizzazione internazionale del lavoro, alla quale Myanmar ha aderito nel 1955. AI teme che la pratica del lavoro forzato faciliti violazioni dei diritti umani quali la tortura, trattamenti crudeli, disumani e degradanti ed esecuzioni extragiudiziali. Inoltre,in Myanmar il lavoro forzato si macchia anche dell'aggravante della detenzione arbitraria, perché i civili vengono presi con la forza dai militari per essere impiegati come lavoratori non retribuiti ed effettivamente detenuti fino a quando l'esercito non li solleva dai loro compiti.

REPRESSIONE DELLE MINORANZE ETNICHE
La popolazione civile delle zone abitate da minoranze etniche subisce da anni gravi abusi, nell’ambito di operazioni anti-guerriglia da parte dell’esercito regolare e delle formazioni paramilitari sue alleate. Gli abitanti di interi villaggi subiscono feroci rappresaglie e rischiano continuamente di venire arrestati e obbligati a prestare la loro opera come portatori o come operai nei cantieri per la costruzione di strade, quando non vengono addirittura utilizzati come scudi umani. Le condizioni di lavoro, secondo numerose denunce, sono quasi sempre ai limiti della sopportabilità. Molte persone, fra cui donne e bambini, ridotti allo stremo delle forze dopo essere stati utilizzati praticamente come schiavi da parte dei soldati, sono state uccise perché non segnalassero la posizione dell’esercito ai ribelli. Particolarmente feroce è stata in questi anni la repressione nei confronti dei Rohingya, musulmani dello stato di Rakhine (Arakan), degli Shan e dei Karen. Nell’ambito di vaste operazioni di guerriglia interi villaggi vengono evacuati, saccheggiati e bruciati dai militari e dai miliziani che li fiancheggiano in quella che può essere a ragione considerata una politica di vera e propria pulizia etnica.

SITUAZIONE ATTUALE
Le cronache di questi giorni sono tristemente note. La protesta è scoppiata nel mese di agosto, in seguito al raddoppio dei prezzi del carburante e di molti generi di prima necessità. Il Paese si trova infatti a fronteggiare una crisi economica senza precedenti, nonostante le numerose risorse fra cui spiccano il legno teck, particolarmente pregiato, ricchi giacimenti di gas e petrolio. L’intervento dei monaci non è una novità: i religiosi furono già in prima linea nella guerra di liberazione coloniale e, soprattutto, nelle proteste del 1988.

(da Amnesty International)

mercoledì 26 settembre 2007

Mauro Corona: il poeta alpinista

Mauro Corona è nato su un carretto, il 9 agosto del 1950.I suoi genitori, Domenico “Mene” Corona e Lucia Filippin detta “Thia”, quell’estate vagabondavano per le valli del Trentino come venditori ambulanti, ed è proprio sulla strada che dal borgo di Piné portava a Trento che Mauro ha visto la luce sul carretto dei genitori.Mauro trascorre quasi sei anni a Piné, ma non ricorda molto di quel periodo. Poi la famiglia decide di riportare lui e il fratello Felice, nato nel 1951, al paese d’origine, Erto, un pugno di case incassato nella valle del torrente Vajont, ultimo baluardo del Friuli occidentale. Trascorre l’infanzia nella Contrada San Rocco, assieme ad altri coetanei ertani. L’amore per la montagna e per l’alpinismo gli entra nel sangue durante le battute di caccia ai camosci al seguito del padre sulle cime che circondano il villaggio.

Appena tredicenne in agosto scala il monte Duranno ed è del 1968, a diciotto anni, la prima via aperta sulla Palazza. La madre abbandona la famiglia pochi mesi dopo la nascita del terzo figlio, Richeto, e passeranno diversi anni prima che faccia ritorno a Erto. Oltre al grande vuoto, da buona lettrice lascia ai figli un patrimonio di libri non indifferente, che Mauro comincia a divorare facendosi compagnia con i personaggi e le storie creati da Tolstoj, Dostoevskyj, Cervantes e altri grandi autori.

Ai nonni resta il compito di tirare su i ragazzi. Dal vecchio Felice, abilissimo intagliatore, Corona apprende sin da bambino i rudimenti della scultura. Ma è l’unico in casa a divertirsi incidendo cucchiai e mestoli di legno con occhi, nasi, volti. Nel frattempo frequenta la scuola elementare fino all’ottava classe a Erto, poi inizia le medie a Longarone. Ma il 9 ottobre 1963 la gigantesca ondata del Vajont spazza letteralmente via la cittadina. Mauro, insieme al fratello Felice, sarà costretto allora a trasferirsi per tre anni nel Collegio Don Bosco di Pordenone. Quando finalmente i due fratelli, terminato il collegio, tornano a Erto, Mauro, da sempre consapevole della sua profonda passione, vorrebbe frequentare la Scuola d’Arte di Ortisei. Per tutta risposta viene iscritto all’Istituto per Geometri Marinoni di Udine, perché era gratuito.

Dopo 2 anni viene ritirato dalla scuola, visto che per ribellione non segue più le lezioni, preferendo leggere Tex in classe.Nemmeno Felice continua gli studi: nel 1968 parte per la Germania con la speranza di di guadagnare qualche soldo impiegandosi in una gelateria. Nemmeno tre mesi dopo annegherà in una piscina di Paderborn, a diciassette anni. Mauro lascia il posto da manovale che aveva trovato a Maniago e va a spaccare massi nella cava di marmo del monte Buscada. Sospende l’attività solamente durante il periodo del servizio militare, a vent’anni. Con i capelli lunghi fino alle spalle, lascia i monti e parte per l’Aquila arruolato negli alpini. Da lì finisce a Tarvisio nella squadra sciatori.
Si congeda con un mese di ritardo, causa trentadue giorni di Cella Punizione Rigore.

Su alla cava con l’inesorabile avanzare del progresso, la vita comincia a cambiare. Poco a poco tutti gli operai abbandonano il campo, alla ricerca di altre strade per sopravvivere. Il lavoro si automatizza, ma il giacimento va avanti ancora per poco. Chiuderà negli anni ottanta. Mauro ci passa ancora le giornate come scalpellino riquadratore quando un fatto inatteso lo convince a tentare la sorte con la scultura. Nei ritagli di tempo e durante i lunghi mesi invernali, non aveva mai smesso di intagliare figurine in legno, camosci, scoiattoli, uccelli e Madonnine. Li teneva nascosti, non mostrandoli a nessuno per pudore e timidezza.

Nel 1975 un distinto signore di Sacile, Renato Gaiotti, passa per caso in via Balbi, davanti al minuscolo covo dove già da qualche anno Mauro abita in beata solitudine, non distante dalla casa dei genitori, nella vecchia Erto. Il foresto nota alcune piccole sculture attraverso i vetri della finestra al pianterreno e decide di comprarle tutte in blocco. Mauro comincia a sperare davvero di poter vivere d’arte e la sua fiducia si rafforza quando, soddisfatto dell’acquisto, poco tempo dopo Gaiotti gli commissiona una Via Crucis da donare alla Chiesa di Sacile. Per quei quattordici pannelli l’uomo lascia sul tavolo di uno sbalordito Corona due milioni, una cifra stratosferica negli anni settanta. Sembra incredibile, eppure è una svolta: oltre a procurarsi tutto il necessario per rendere vivibile la sua tana, Mauro investe il resto dei soldi nell’attrezzatura indispensabile a scolpire e decide di trovarsi un maestro che gli possa insegnare seriamente il mestiere. La scelta ricade su Augusto Murer, il geniale artista di Falcade morto nel 1985. Tra i due nasce una bella amicizia e Murer sarà presente anche alla prima mostra che Mauro organizza a Longarone.Da allora le esposizioni sono seguite numerose e nei luoghi più disparati, fino in Svizzera.

Mauro intanto non trascura certo l’altra sua grande passione, l’arrampicata. Nel 1977 comincia ad attrezzare le falesie del Vajont, che si affacciano sulla zona del disastro, destinate a diventare meta fondamentale dei climbers di tutto il mondo. Chiodeggia un po’ tutte le crode del Friuli, e non solo. Oggi diverse montagne sono punteggiate da vie di scalata che portano la sua firma, dalla semplice palestra di roccia arroccata in posti inaccessibili alle salite di notevole impegno alpinistico. Mauro però non si limita all’Italia, avventurandosi fino in Groenlandia per una spedizione e volando in California a toccare con mano le leggendarie pareti della Yosemite Valley. Quando ne ha voglia, ama anche scribacchiare. Un amico giornalista un giorno decide di pubblicare alcuni dei suoi racconti sul quotidiano “Il Gazzettino”.

E’ da qui che comincia, all’inizio un po’ in sordina, una nuova attività, quella di scrittore, che lo porta alla pubblicazione di sei libri, dal 1997 fino a oggi. Per puro divertimento partecipa alla realizzazione di alcuni documentari sulla sua vita e prende parte ad un film-denuncia sulla catastrofe del Vajont. Durante tutto questo tempo Mauro non trascura gli affetti e riesce anche a crearsi una famiglia, che tuttora vive con lui.A detta di molti è introvabile. Alcuni dubitano persino della sua esistenza. Altri si vantano di essersi addentrati nei misteri della sua bottega-studio, che sembra scavata in un tronco di cirmolo.

Mauro intanto continua ad occuparsi tranquillamente del suo lavoro. Alterna solitari momenti di studio e di scrittura a conferenze, incontri e manifestazioni, continua a realizzare figure lignee ispirandosi alle forme e alle cose che lo colpiscono durante meditabonde passeggiate tra i boschi della Val Vajont. Va a correre in montagna e porta i figli a scalare. Quando cala la sera a volte lo potete incontrare in osteria che sorseggia un buon rosso con gli amici. A volte più di uno.




domenica 23 settembre 2007

Una questione di razza

Studenti bianchi e neri con vite separate, cappi che penzolano dai rami a mo' di minaccia, pestaggi organizzati degli appartenenti all'altra razza, giurie monocolore che emettono sentenze controverse. Nell'abisso tra le due verità – una bianca e una nera – in cui è sprofondata Jena, 3.500 abitanti tra i boschi della Louisiana, gli Stati Uniti stanno rivivendo le atmosfere degli anni Sessanta e le battaglie del movimento per i diritti civili degli afroamericani. Un clima culminato in una manifestazione di decine di migliaia di persone, calate su questa piccola città del “profondo Sud” statunitense per chiedere una giustizia equa, a prescindere dal colore della pelle.
Al centro della storia ci sono sei studenti di liceo afroamericani. Lo scorso 4 dicembre, i ragazzi hanno picchiato uno studente bianco che aveva preso in giro uno di loro, vittima qualche giorno prima di un pestaggio da parte di altri bianchi. Le tensioni a Jena erano alte dall'inizio di settembre, quando alcune matricole afroamericane della Jena High School “osarono” sedersi all'ombra di un albero dove per tradizione si riunivano solo gli studenti bianchi. Il giorno dopo, dai rami di quell'albero penzolavano tre cappi. Il preside della scuola raccomandò l'espulsione dei tre ragazzi bianchi autori del gesto, ma il consiglio scolastico non lo ascoltò e chiuse il caso sospendendo i responsabili per tre giorni. Gli studenti afroamericani protestarono e si rivolsero al procuratore distrettuale Reed Walters, che non gradì il clamore intorno a quella che definì “una bravata innocente”. E agli studenti riuniti – secondo i neri rivolgendosi a loro – disse: “Vedete questa penna? Con un colpo di questa posso porre fine alle vostre vite”.

Caso chiuso ma solo sulla carta, mentre a scuola la vita procedeva tra sguardi in cagnesco e provocazioni sparse, con studenti bianchi e neri sempre più divisi, in una città popolata all'85 percento da bianchi. Il 30 novembre, le fiamme appiccate all'edificio principale della high school invelenirono ulteriormente il clima; ancora oggi non si conosce il colpevole, ma tutti pensano che sia stato “l'altro”. La sera successiva, due zuffe tra bianchi e neri si svilupparono all'esterno di una festa. Il giorno dopo, nel negozio di un distributore di benzina, scoppiò una lite tra un bianco presente a quel party e un gruppo di studenti neri. Il ragazzo tirò fuori un fucile dalla sua auto e minacciò gli afroamericani. Nella colluttazione uno di loro, Robert Bailey, riuscì a impossessarsi del fucile e se lo portò a casa. La polizia locale indagò sulla zuffa. Come risultato, Bailey fu accusato di furto d'arma, rapina e disturbo della quiete pubblica; il ragazzo bianco fu prosciolto. Un altro fatto vissuto come un'ingiustizia.

Così, quando lo studente Robert Barker – non uno di quelli che appese i cappi all' “albero dei bianchi” – si prese a male parole con altri sei afroamericani della high school, per lui finì male. Quelli che poi sarebbero diventati i Jena Six lo lasciarono agonizzante sul terreno. Fu portato in ospedale e dimesso dopo due ore, con la faccia gonfia ma capace di tornare a casa con le sue gambe, tanto che poi alla sera partecipò a una riunione a scuola. Inizialmente, i sei assalitori furono accusati di semplice aggressione. Ma poi il procuratore Walters alzò il tono, trasformando i capi di imputazione in “tentato omicidio”: un'accusa che potrebbe tenerli in carcere per oltre trenta anni. E' iniziata così una battaglia legale ancora in corso: i Jena Six erano tutti minorenni al momento del pestaggio, ma per la legge della Louisiana i maggiori di 15 anni vanno processati come gli adulti per questo tipo di reato. Mychal Bell, l'unico dei Jena Six con precedenti penali, è stato trovato colpevole – da una giuria di sei persone tutta composta da bianchi – di “aggressione aggravata” (cioè quella perpetrata con un'arma, nel suo caso le scarpe da tennis usate per dare calci a Barker), e ieri avrebbe potuto essere condannato a 22 anni di reclusione. Avrebbe, perché nel frattempo è intervenuta una corte di appello che ha bloccato tutto, sostenendo che il ragazzo dovrebbe essere giudicato da un tribunale minorile.
A livello giudiziario, il caso non è finito. La serie di ricorsi, ultimo quello del procuratore distrettuale, continuerà a lungo. Ma la storia è diventata un caso nazionale. Jesse Jackson e Al Sharpton, i due reverendi icone dei diritti degli afroamericani, l'hanno paragonata alle marce per i diritti civili in Alabama. Sono nati movimenti popolari per chiedere la fine delle discriminazioni razziali nel sistema giudiziario. La campagna per i Jena Six è fatta anche di video su YouTube, e la petizione a loro favore ha raccolto 345mila firme. Il cantante David Bowie ha donato 10mila dollari per le spese legali dei sei ragazzi. Sui blog gli americani si dividono, facendo riemergere rancori e stereotipi: a chi protesta contro la mano pesante della giustizia nei confronti dei neri, alcuni rispondono facendo notare che dopotutto un'aggressione organizzata rimane un atto grave, e il “sei contro uno” sarebbe un indice della “mentalità da gang” degli afroamericani. Il posto dove è iniziato tutto, “l'albero dei bianchi”, non c'è più, è stato tagliato. Ma a Jena, e non solo, i semi dell'odio girano ancora.
(Alessandro Ursic)

sabato 22 settembre 2007

Kareem Abdul Jabbar

Lewis Ferdinand Alcindor, e chi era costui ? Forse agli spettatori meno attenti del basket NBA questo nome può dire poco o nulla, ma dietro ad esso si cela uno dei più forti giocatori della pallacanestro di tutti i tempi : Kareem Abdul Jabbar. Nato nel 1947 a New York, già giovanissimo attira le attenzioni dei vari college americani, dato il suo fisico possente (più di 2 metri a solo 14 anni !) e per la capacità di trascinare la squadra della sua scuola, la Power Memorial Academy, alla vittoria in tre campionati consecutivi con un record di ben 53 vittorie di fila. Stando alle statistiche dell'epoca Lew Alcindor, in quei tre anni giocati al liceo, riesce a mettere insieme qualcosa come 2.067 punti e 2.002 rimbalzi. Queste maiuscole prestazioni fanno talmente tanto rumore nel mondo della pallacanestro universitaria che il giovane giocatore di colore riceve circa duecento proposte di studio da parte dei migliori colleges americani. La scelta del futuro campione ricade sulla gloriosa UCLA (University of California, Los Angeles), sulla cui panchina siede il "guru" del basket universitario statunitense : il leggendario John Wooden; l' esperto coach non fatica a riconoscere nel nuovo arrivato un campione di classe sopraffina e costruisce la squadra ed i suoi schemi intorno a lui, stravolgendo il pur vincente team degli anni precedenti. Tanta fiducia viene ripagata da Alcindor guidando l'UCLA a tre titoli NCAA consecutivi ('67-'68-'69) ottenendo anche, per quelle tre stagioni, la nomina di MVP del torneo, con la media, per quel periodo stratosferica, di 26,4 punti per partita. Quello che emerge dal campionato universitario è un giocatore molto potente fisicamente (218 cm. di altezza per 105 kg. di peso) ma anche veloce ed estremamente tecnico: non si era mai visto un centro capace di segnare caterve di punti, essere micidiale nei rimbalzi (media di circa 15 per partita), stoppare gli avversari con una facilità irrisoria, fornire assist con l'abilità di un play, andare al tiro con ottima precisione il tutto condito da una classe ed un' eleganza uniche per un centro. Dirà di lui Bill Cousy, grandissimo playmaker dei Boston Celtics degli anni '50 e '60 : "…da solo riesce a combinare molto bene le capacità nelle quali eccellevano Bill Russell e Wilt Chamberlain…".Ovviamente prima scelta per i draft nell'annata 1969/1970, viene conteso dai Milwaukee Bucks (squadra appartenente all' NBA) e dai New Jersey Nets (franchigia iscritta all'ABA) in un asta a suon di soldoni : con l'offerta di più di un milione di dollari a stagione(impensabile per un qualsiasi esordiente) i Bucks hanno la meglio e mettono sotto contratto il miglior talento mai visto su un campo di basket fino a quei tempi. La prima stagione di Alcindor in NBA è esaltante : con 2.361 punti e 1.190 rimbalzi vince il premio come rookie of the year e trascina la squadra fino alle semifinali, perdendo solo al cospetto dei New York Knicks, futuri campioni di quell'anno. Visti i risultati, nel 1970 i Bucks decidono d puntare al loro primo "anello", e costruiscono intorno a lui una squadra di assoluto valore e tra tutti i nuovi arrivi spicca l'ingaggio del veterano Oscar Robertson ("big O"), pluridecorato giocatore di classe cristallina. Sotto l'abile guida del coach Larry Costello, la squadra di Milwaukee stravince il titolo NBA (66 partite vinte nella stagione regolare, record ai playoff di 12 - 2) ed Alcindor conquista a furor di popolo (e di canestri : top scorer della stagione alla media di 31,7 a partita !) il riconoscimento come MVP dell' intero campionato. La supremazia sotto i tabelloni ed il suo famosissimo "gancio cielo" (sky hook), tiro praticamente impossibile da stoppare e che lui esegue con millimetrica precisione, sono i punti di forza di un atleta che piace al pubblico del basket anche per la sua serietà professionale e per i suoi atteggiamenti da antidivo, senza tante mattane per la testa. Anche se la sua popolarità, in questo periodo della sua carriera, subisce un duro colpo. Già musulmano praticante dai tempi dell' UCLA, Lewis Alcindor decide proprio alla fine della stagione 70'-'71 di cambiare il proprio nome in Kareem Abdul Jabbar, per onorare la propria fede religiosa. Gli appassionati della pallacanestro rimangono scioccati da questo repentino cambiamento e, grazie anche alla stampa mostratasi ostica nei confronti del campione newyorkese, voltano le spalle al loro beniamino. Kareem, incurante di ciò, tira diritto per la sua strada : solo il tempo renderà giustizia a questo grandissimo giocatore che riconquisterà l'affetto e la stima dei tifosi grazie al suo carattere ed alle immense doti cestistiche. Nonostante il fatto che negli anni successivi i Bucks non riescano a ripetere le prestazioni della magica stagione dell'anello, Jabbar continua a giocare da par suo macinando canestri su canestri e meritandosi nuovamente il titolo di MVP per le stagioni '71-'72 e '73-'74. Il punto di svolta nella carriera di Kareem arriva alla fine della stagione 74'-'75: in quella appena conclusa, infatti, si era ritirato il compagno di tante vittorie Robertson e di conseguenza i verdi di Milwaukee si erano ritrovati a navigare nelle zone basse delle classifiche con un quintetto base non all' altezza della situazione, una cosa non certo gradita al campione americano che da lì cominciò a guardarsi attorno per cambiare squadra. Nello stesso momento i Los Angeles Lakers erano alla ricerca di un giocatore che potesse degnamente sostituire il leggendario "the stilth" Wilt Chamberlain, recordman di punti segnati nell'NBA e trascinatore della franchigia gialloviola già dagli anni '60. I Lakers sono una sistemazione assai gradita a Jabbar, data la grande tradizione cestistica di quella società, e il trasferimento, tra lo scalpore generale, si realizza su queste basi : Kareem va a Los Angeles in cambio di Elmore Smith, Brian Winters, Junior Bridgeman e Dave Meyers.; si va ad inserire quindi il primo tassello di una formazione che passerà alla storia, soprattutto negli anni '80, per il suo gioco scintillante basato sulla velocità e sul micidiale contropiede : lo "showtime". Nonostante Jabbar continui a dare spettacolo (nuovamente MVP del campionato '75-'76 con 27,7 punti e 17 rimbalzi a partita), i Lakers faticano molto ad ingranare; la squadra è in un delicato momento di transizione, dato lo svecchiamento della rosa cominciato qualche stagione prima, e con una deludente media - vittorie sotto il 50% fallisce l'obiettivo minimo di entrare nei playoff, mentre nell'anno seguente riesce ad issarsi fino alle semifinali, battuta solo dai sorprendenti Portland Trail Blazers capitanati dal baffuto Bill Walton, ex compagno di università di Kareem. Gli stessi Blazers vinceranno quel torneo in modo del tutto inaspettato, ma la palma del miglior giocatore dell'anno andrà al "solito" Jabbar che, come in una sorta di maledizione, non riesce a scrollarsi di dosso la scomoda etichetta di "campione perdente". Nel 1978 un brutto episodio fa ulteriormente calare la già scarsa popolarità del centro di Los Angeles: durante l'incontro con i Bucks, Kareem colpisce volontariamente con un pugno il promettente pivot Kent Benson, fratturandogli una mano; questo episodio violento, più unico che raro nella sua gloriosa carriera, costa molto caro a Jabbar (5.000 $ di multa e squalifica per 20 partite) ed indirettamente anche ai gialloviola che si vedono privati della possibilità di accedere alle fasi finali, causa la prolungata assenza del loro miglior realizzatore. C'è comunque da sottolineare che dalla fine del '77 all' inizio del '79 si registra una pur lieve flessione nelle prestazioni del campione newyorkese, e la stampa, che ancora a distanza di anni non gli perdona il cambio di nome, comincia a sollevare dubbi sulla capacità di mantenersi a così alti livelli di gioco e ne decreta un lento ma inesorabile tramonto. La migliore risposta, come al solito, arriva dal campo. Nell'annata '79 - '80 , grazie anche all'arrivo dal college di Michigan State della matricola Earvin "Magic" Johnson, i Lakers giocano un campionato memorabile (saranno 60 le partite vinte nella stagione regolare) e riescono ad aggiudicarsi in 6 partite la vittoria ai playoff contro i 76ers di Philadelphia guidati dal mitico "doctor J" Julius Erving. Votato nuovamente MVP dell'anno, Kareem torna ad esprimersi ai suoi più alti livelli, ma purtroppo un banale infortunio alla caviglia lo tiene fuori dal campo nella partita decisiva delle finali : il suo posto sotto i tabelloni viene preso proprio da Magic che, facendo tesoro dei continui insegnamenti ricevuti dal più anziano compagno di squadra, con una prestazione "alla Jabbar" sbaraglia il campo e trascina Los Angeles al trionfo. Negli '80 i Lakers con la coppia Kareem - Magic, unita ad altri ottimi "gregari" (Bob Mc Adoo e James Worhty tanto per citarne un paio), trova nei Boston Celtics di Larry Bird, Bob Parish e Kevin Mc Hale i suoi più degni rivali. Le due franchigie si spartiranno i successi di tutto il decennio lasciando agli altri solo le briciole: cinque vittorie per i Lakers, tre per Boston ed un anello a testa per Philadephia e Detroit. Nonostante l' avanzare dell' età, Kareem tiene il campo in maniera perfetta risultando ancora, a trentotto anni suonati, miglior giocatore dei playoff e battendo proprio in quella stagione (1984/1985) il record di punti segnati in carriera, demolendo il precedente primato che apparteneva a Wilt Chamberlain; la curiosità di questo record è che fu superato durante una partita di stagione regolare a Boston tra Celtics e Lakers : proprio gli sportivissimi tifosi degli acerrimi nemici ebbero l'onore di tributare al grande campione una standing ovation di dieci minuti. Jabbar chiuderà con la pallacanestro a 42 anni quando, nonostante l'assenza per infortunio di Magic Johnson, riuscirà ancora a guidare la squadra di Los Angeles fino all' ottava finale degli anni '80 disputata, e persa, contro i Detroit Pistons. Il seguente tour di addio al basket è stato seguito da moltissimi tifosi che gli hanno tributato infinite ovazioni e manifestazioni di affetto, dimostrando che Lew Alcindor o Kareem Abdul - Jabbar , comunque lo si voglia chiamare, è stato un patrimonio non di una squadra solamente ma di uno sport intero.




(Gianmarco Boccaccio)

martedì 18 settembre 2007

Alf

Alf (nome del protagonista e acronimo di Alien Life Form) è un telefilm di fantascienza strutturato sulla falsariga delle più famose sitcom americane, prodotto dalla NBC e andato in onda sulla stessa emittente dal 1986 al 1990 (successivamente in Italia sulla Rai e in replica su altre emittenti private).

Creata da Paul Fusco la serie è composta da centotre episodi suddivisi in quattro stagioni, da cui sono nati successivamente anche due adattamenti animati.
La serie, ispirata al film E.T. l'Extra-Terrestre del 1982, ha per protagonista Gordon Shumway (chiamato dalla famiglia presso cui atterra Alf), alieno di 229 anni proveniente dal pianeta Melmac dove l'erba è blu e il cielo è verde. Ricoperto completamente di pelo arancione, Alf va ghiotto di gatti e, nonostante l'età, la maggior parte delle volte si comporta in modo molto infantile e arrogante.

Seguendo un segnale radio Alf si schianta sul garage della famiglia Tanner che, non sapendo come comportarsi, lo accoglie e lo tiene al sicuro dalla NASA e dai propri vicini, finché i lavori per riparare l'astronave non saranno ultimati. Alf ha abbandonato il suo pianeta natale perché è andato incontro all'apocalisse nucleare (causata dall'accensione contemporanea da parte di tutti gli abitanti del pianeta di un asciugacapelli...) ed è convinto di essere l'unico sopravvissuto della sua specie. Diventa a questo punto un membro della famiglia Tanner, sempre tenuto nascosto, impara fin troppo bene a sopravvivere alla monotonia casalinga dedicandosi alla televisione e al cibo.

Curiosità:

Walt Disney fece un'offerta per acquistare i diritti della serie, ma senza riuscire ad ottenerli.

L'ultimo episodio della serie in realtà doveva aprire la strada alla quinta stagione, che non venne però realizzata. Nel 1996 la serie si concluse con "Project: Alf" un film per la TV che non ebbe un grande successo a causa di una realizzazione non troppo brillante e il cast originale rimpiazzato da altri attori.

Secondo Alf, il suo corpo è composto da un totale di dieci organi, di cui sette sono stomaci.

Il titolo originale di ogni episodio è anche il titolo di una canzone.

La serie è stata trasmessa in più di ottanta paesi.

Nella serie "I Griffin", in una puntata si vede Peter Griffin che guarda uno speciale alla TV, dove viene intervistato lo stesso Alf (che quindi non viene considerato un pupazzo ma un attore vero e proprio) che racconta della sua vita nel periodo che girava la famosa sit-comedy (ammetterà che faceva uso di droghe!).

Emmanuel Sanon

Emmanuel Sanon. Chi? Nome e cognome dicono poco a quelli che si vantano di capire e conoscere il calcio di oggi. Eppure, nel 1974 il calciatore di Haiti divenne una celebrità. Lo chiamavano "Manno", ed era cresciuto in un quartiere tipo Bronx nel quale si imparava presto a scappare. A Petionville giocava in una squadretta dal nome italiano, la "Don Bosco". Un segno del destino, forse, per quello che nel frattempo era diventato il pupillo del dittatore Duvalier.

Il Messico e Trinidad non riuscirono a fermare la marcia inarrestabile di Haiti verso il mondiale. Era il 1974, e il titolo si sarebbe assegnato in Germania. Il sorteggio mise nello stesso girone l'Italia vice-campione del mondo, la Polonia di Deyna e Szarmach, l'Argentina di Perfumo e Haiti, prima squadra dei Caraibi ad un mondiale.

All'esordio, dunque, Italia-Haiti. Per gli uomini di Valcareggi, reduci dal Messico dove il Brasile di Pelè gli aveva bloccato la strada verso la definitiva conquista della Coppa Rimet, si prospettava una passeggiata. Un allenamento, quasi. Zoff non prendeva gol da tempo immemorabile. Riva e Rivera erano sempre più grandi. Burgnich, Morini e Spinosi formavano una difesa inespugnabile. Eppure, non tutto filò liscio, anzi. Il primo tempo finì 0-0, anche grazie alle parate decisive del portiere Francillon e al tifo, decisamente contrario agli azzurri. Nel secondo tempo, dopo appena un minuto si materializzò quella che sembrava potesse essere la nuova disfatta, la "Corea" degli anni '70.

Sanon si impossessò del pallone nella sua metà campo, e uno dopo l'altro fece fuori i terzini, saltandoli come birilli. Una corsa che non finiva mai. Cinquanta metri e poi, lì davanti, Zoff. Il portierone. Imbattuto da 12 partite. 1142 minuti in cui nessuno aveva obbligato il Dino azzurro a raccogliere il pallone in rete. Zoff in ginocchio, Sanon in trionfo. Poco importa che poi, per fortuna, l'Italia riuscì ad aggiustare la partita e vinse 3-1. "Manno", con quel gol, aveva ipotecato il futuro.

Al ritorno in patria, infatti, venne letteralmente accolto come un re. Ebbe onorificenze, soldi, lauree ad honorem e un contratto per giocare all'estero, in Belgio e negli Stati Uniti. Scrisse un libro sulla sua vita e il sindaco di Miami gli dette le chiavi della città. Il gol realizzato a Zoff pagò bene, eccome.

(Mario Amitrano)

lunedì 17 settembre 2007

I Simpson

I Simpson (The Simpsons) è un popolare cartone animato statunitense di successo creato dal fumettista americano Matt Groening negli anni ottanta per la Fox Broadcasting Company. È una parodia satirica dello stile di vita americano, personificato dalla famiglia protagonista, di cui fanno parte Homer, Marge e i loro tre figli Bart, Lisa e Maggie.

Ambientato in una cittadina statunitense chiamata Springfield, lo show tratta in maniera satirica molti aspetti della condizione umana, così come la cultura americana, la società in generale e la stessa televisione.

La famiglia fu concepita da Matt Groening insieme a James L. Brooks in una serie di corti animati di un minuto da mandare in onda durante il Tracey Ullman Show. Nei corti, Groening rappresentava la sua versione di una famiglia disfunzionale. Fra l'altro, nominandone tutti i membri (tranne Bart) come quelli della sua famiglia.

La loro prima apparizione nel Tracey Ullman Show si ebbe il 19 aprile 1987 in un corto intitolato Good Night. Da quel momento, per tre anni, I Simpson andarono in onda durante gli intermezzi pubblicitari dello show ottenendo un buon successo. Lo show debuttò sotto forma di episodi di mezz'ora in prima serata il 17 dicembre 1989.

I Simpson furono fin da subito uno show di punta della Fox, riuscendo a vincere per 81 volte i più importanti premi televisivi. Un numero del magazine Time del 1998 lo acclamò come "miglior serie televisiva del secolo". Il 14 gennaio 2000 lo show ottenne una stella nella Hollywood Walk of Fame. É, a tutt'oggi, la più lunga sitcom e serie animata americana mai trasmessa. Come prova dell'influenza che lo show ha avuto nella cultura popolare, l'esclamazione contrariata di Homer Simpson, "D'oh!", è stata introdotta nell'Oxford English Dictionary. I Simpson sono inoltre stati più volte citati come influenza per diverse serie animate adult-oriented prodotte da metà anni novanta in poi.

Dal suo debutto, sono stati finora mandati in onda 400 episodi per 18 stagioni. La Fox ha inoltre deciso di allungare il contratto per la messa in onda dello show per un'altra stagione, la diciannovesima, a partire dal 23 settembre 2007.[3] La diciottesima stagione si è conclusa il 20 maggio con il quattrocentesimo episodio, You Kent Always Say What You Want. L'anno 2007 ha inoltre portato alla celebrazione del ventesimo anniversario dalla nascita del marchio de I Simpson.
Un lungometraggio tratto dalla serie, intitolato I Simpson - Il film (titolo originale The Simpsons Movie), è uscito in quasi tutto il mondo il 27 luglio 2007, in Italia invece è uscito il 14 settembre.

I protagonisti:
Homer Jay Simpson è un pigro, inetto e incompetente ispettore di sicurezza nel settore 7G della Centrale Nucleare di Springfield; adora strafogarsi di cibo e birra.
Marge Simpson è, per la maggior parte della serie, una tipica madre e casalinga americana.
Bart Simpson (Bartolomew Jay Simpson) è un bambino di dieci anni furbo e insofferente alle regole, il suo migliore amico è Milhouse ed ama andare sullo skate, anche se la sua attività preferita resta combinare scherzi, sopratutto ai danni di Boe (Moe nella versione originale) Syzlak, il barista e al preside della sua scuola, Skinner.
Lisa Simpson (Elizabeth Marie Simpson) è una bambina di otto anni intellettuale e anticonformista che si ritrova spesso e volentieri coinvolta nell'attivismo progressista, è vegetariana, ama gli animali e la sua grande passione è suonare il sassofono.
Maggie Simpson è una neonata (ha solo un anno di età) la cui unica attività è succhiare un ciuccio; non riesce per il momento a camminare, ed ogni volta che ci prova cade in avanti. Non si è ancora sentita la sua voce, né da bimba né nelle puntate in cui appare grande (rarissime, una volta appare sua figlia), tranne che in un'occasione, una puntata dove Homer, chiudendo la porta della stanza di Maggie, dice che è meglio se i bambini imparano a parlare più tardi, perché prima lo fanno prima rispondono ai genitori; a quest'affermazione Maggie, con la porta ormai chiusa, risponde addormentandosi: "Papà".
La famiglia ha anche due animali,
Piccolo aiutante di Babbo Natale, un cane
Palla di neve II, un gatto
ma ha anche avuto, solo per alcuni particolari episodi, altri animali.

Nonostante il fatto che passino gli anni e vengano evidenziati compleanni e vacanze, i membri della famiglia e di tutta la serie non subiscono un aumento dell'età; alcuni personaggi minori durante la serie sono defunti, per lo più in circostanze tragicomiche, come Maude, la moglie di Ned Flanders, colpita da una maglietta promozionale e caduta dai palchi dell'autodromo, ma anche di malattia, come Gengive Sanguinanti Murphy, uno scalcinato, ma bravissimo, sassofonista, amico di Lisa.

Inoltre sono presenti una serie di strambi personaggi secondari, alcuni dei quali competono in popolarità con i protagonisti principali. Originariamente, molti di questi personaggi erano pensati per un'unica apparizione, ma diversi sono riusciti ad ottenere un maggior spazio all'interno dello show e spesso sono divenuti i protagonisti principali di molti episodi.

Portobello

Non si può ricordare Portobello senza pensare alla tragedia umana di Enzo Tortora: come dimenticare il suo volto sofferto la sera del 20 febbraio 1987, la frase "Dunque, dove eravamo rimasti..." e il conseguente scrosciante e commosso applauso del pubblico? Enzo Tortora ci avrebbe lasciato di lì a poco, minato non solo nel morale ma anche nel fisico dopo la sua assurda e ingiusta detenzione carceraria.
Nel 1977 Enzo Tortora era appena rientrato in Rai: il suo ritorno era stato fortemente voluto dal direttore di Rai Due Massimo Fichera che gli aveva assegnato, congiuntamente a Raffaella Carrà, la conduzione di "Accendiamo la lampada".

Il conduttore genovese era reduce dal suo secondo esilio dalla Rai. Nel 1969 aveva elegantemente condotto la Domenica Sportiva: in un'intervista a un giornale aveva dichiarato che la Rai era come"un jet colossale guidato da un gruppo di boy-scout che si divertono a giocare con i comandi". Questa frase, sicuramente non priva di fondamento - e per certi versi ancora attuale - aveva scatenato le ire dell'alta dirigenza della Rai. Scattò automaticamente il suo allontanamento dalla Rai, punizione non nuova per lui dopo che negli anni '60 era stato allontanato per aver permesso ad Alighiero Noschese un'imitazione di Amintore Fanfani giudicata offensiva dai censori dell'epoca.

L'idea di Portobello nacque nel 1977 e fu partorita dalla mente feconda di Enzo Tortora, della sorella Anna, di Angelo Citterio, di Adolfo Perani e di Gigliola Barbieri. Il fulcro intorno a cui si incentrava la trasmissione era la gente comune e in particolare la gente tipica della provincia italiana, con i suoi valori semplici e con le sue ingenuità. La conduzione di "Campanile sera", fatta insieme a Mike Buongiorno, con la conseguente frequentazione delle piccole cittadine della provincia italiana, rappresentò per Enzo Tortora una esperienza fondamentale.

Nacque in questo modo la TV verità, genere che in seguito avrebbe dato origine a numerosi cloni, alcuni dei quali di natura eccessivamente patetica e lacrimevole. Come pensare all'attuale "Chi l'ha visto" o a "Carramba che sorpresa!" senza ricordare la rubrica "Dove sei" e la sua sigla musicale carica di suspence? Oppure pensare ad "Agenzia matrimoniale" o a "Stranamore" senza pensare a "Fiori d'arancio"?

"Dove sei" e "Fiori d'arancio" erano due rubriche fisse di Portobello: oltre ad esse la trasmissione era incentrata sulla presenza di inventori scovati negli angoli più nascosti della provincia italiana. In ogni puntata venivano presentate un certo numero di invenzioni e idee, alcune delle quali di natura veramente strampalata e ai limiti della follia: come dimenticare il tipo che voleva spianare il colle del Turchino per creare uno sfogo naturale alla nebbia in Val Padana? Oppure il gelato antisgocciolo? O la scheda elettorale circolare?

Dopo la presentazione di ogni invenzione questi strani personaggi venivano accompagnati dentro anguste cabine, ognuna delle quali era dotata di un telefono su cui pervenivano le offerte -molte volte completamente prive di fondamento- delle persone interessate alle invenzioni. Tutto finiva quando Enzo Tortora pronunciava la fatidica frase "Big Ben ha detto stop!". Prima che ogni telefonata giungesse agli inserzionisti vi era il filtro delle famosissime telefoniste capitanate da "Sua soavità" (nella definizione di Enzo Tortora) Renée Longarini: assurgere al ruolo di telefonista nella trasmissione Portobello era un grosso trampolino di lancio per le giovani di belle speranze dell'epoca: basti pensare che il ruolo di telefonista è stato appannaggio di personaggi come Gabriella Carlucci, Eleonora Brigliadori e di Susanna Messaggio.

Un altro momento clou della trasmissione era l'ingresso in studio del pappagallo Portobello e dell'ospite di turno che aveva il compito di farlo parlare. L'impresa si rivelò di puntata in puntata sempre più ardua e riuscì solo alla attrice Paola Borboni: il premio vinto dall'attrice fu devoluto in beneficenza e servì per pagare le cure relative a una operazione a cui fu sottoposto un bambino di Genova.

Nella conduzione della trasmissione Enzo Tortora si fece coadiuvare per la parte musicale da Lino Patruno che, con la sua Portobello Jazz Band, curava in maniera jazzistica gli intermezzi musicali fra una rubrica e l'altra.

Il successo di Portobello fu travolgente. Nel 1977, anno dell'esordio, si collocò al 10° posto fra i programmi più visti con un pubblico medio di circa 20 milioni di telespettatori, nel 1978 si collocò al 2° posto con 25 milioni di telespettatori e nel 1979 raggiunse il 1° posto con 25,1 milioni di telespettatori.

(Gianpietro Vairo)

domenica 16 settembre 2007

Mortalità infantile: un traguardo storico

Nuovi dati rivelano importanti progressi nella lotta alla mortalità infantile, con un declino del numero di decessi annui di bambini sotto i 5 anni. La mortalità infantile ha toccato il picco più basso da sempre, scendendo sotto i 10 milioni di morti all'anno e attestandosi a 9,7 milioni, rispetto ai 13 milioni del 1990.

«Questo è un momento storico» ha affermato il Direttore generale dell'UNICEF Ann Veneman. «Sopravvivono più bambini oggi che mai prima in passato. Dobbiamo far leva su questo successo sanitario per accelerare il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio.» Tra gli Obiettivi del Millennio vi è l'impegno a ridurre di 2/3 la mortalità infantile tra il 1990 e il 2015, un risultato che salverebbe la vita di altri 5,4 milioni di bambini da oggi al 2015. Non vi è però ragione di compiacersi, ha sottolineato il Direttore generale dell'UNICEF: «La perdita ogni anno di 9,7 milioni di giovani vite è inaccettabile. La maggior parte di queste morti sono prevenibili e, come dimostrano i recenti progressi, le soluzioni sono sperimentate e collaudate. Sappiamo che la vita dei bambini può essere salvata quando abbiano accesso a servizi sanitari integrati, erogati su base comunitaria e sostenuti da un efficace sistema di rinvio a strutture specializzate.»

I nuovi dati sulla mortalità infantile sono ricavati da una vasta gamma di fonti statistiche, inclusi due gruppi di ricerche realizzate su base familiare: rilevazioni indicatori multi-campione (MICS) e rilevazioni demografiche su base familiare (DHS). L'ultima serie di indagini su indicatori multi-campione (MICS) è stata effettuata da UNICEF e altre agenzie ONU tra il 2005 e il 2006 in oltre 50 paesi e, insieme alle rilevazioni DHS finanziate da USAID, costituisce la più ampia fonte di informazioni sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio e la base di valutazione dei progressi in termini di sopravvivenza infantile. I risultati confermano i rapporti già pubblicati quest'anno sui progressi contro la mortalità da morbillo, con un calo del 60% rispetto al 1999, che arriva al 75% nell'Africa Subsahariana.

Un rapido declino della mortalità sotto i 5 anni si è avuto nelle regioni dell'America latina e Caraibi, dell'Europa centrale e orientale, nella Comunità degli Stati Indipendenti (ex URSS), nell'Asia orientale e Pacifico. Rispetto alle precedenti rilevazioni del 1999-2000, molti paesi hanno compiuto progressi particolarmente significativi, con il Marocco, il Vietnam e la Repubblica Dominicana che hanno ridotto i tassi di mortalità infantile di oltre un terzo, il Madagascar del 41% e Sao Tome e Principe del 48%. Dei 9,7 milioni di morti infantili che si verificano ogni anno, 3,1 milioni avvengono in Asia meridionale e 4,8 nell'Africa Subsahariana. Nei Paesi in via di sviluppo i tassi di mortalità infantile sono considerevolmente più elevati tra i bambini che vivono nelle aree rurali e nelle famiglie più povere. Nei Paesi industrializzati si registrano appena 6 morti infantili ogni 1.000 nati vivi. America latina e Caraibi sono sulla via di raggiungere l'Obiettivo del Millennio relativo alla mortalità infantile, con 27 decessi infantili ogni 1.000 nati vivi, contro i 55 del 1990. Si registrano progressi significativi anche in alcune parti dell'Africa subsahariana: tra il 2000 e il 2004 la mortalità sotto i 5 anni è diminuita del 29% in Malawi e di oltre il 20% in Etiopia, Mozambico, Namibia, Niger, Ruanda e Tanzania. I più alti tassi di mortalità infantile si registrano ancora nei paesi dell'Africa centrale e occidentale. In Africa meridionale i progressi faticosamente ottenuti sono messi a rischio dalla diffusione dell'HIV/AIDS.

Molti dei progressi ottenuti sono il risultato dell'adozione su vasta scala di interventi sanitari di base, come l'allattamento al seno immediato ed esclusivo, la vaccinazione contro il morbillo, la somministrazione di vitamina A e l'utilizzo di zanzariere trattate con insetticidi per prevenire la malaria. Inoltre, rispetto al passato, si registra a livello mondiale un sostegno senza precedenti alla sanità, con un aumento degli stanziamenti di fondi e più estese alleanze tra i governi, il settore privato, le fondazioni internazionali e la società civile. «I nuovi dati dimostrano che i progressi sono possibili, quando si agisca con rinnovata urgenza per estendere gli interventi che si sono già rivelati efficaci» ha dichiarato il Direttore generale dell'UNICEF Ann Veneman. «Vi è un immediata necessità di intervenire, in Africa e altrove.»

venerdì 14 settembre 2007

Il pallone Super Tele

Non c'è giovane nato negli anni Settanta che non abbia mai provato l'ebbrezza di tenere uno di questi miti sferici tra le mani. Solitamente venduto dai tabaccai e dai negozi di giocattoli di second'ordine il pallone da calcio Super Tele rappresenta il coraggio dell'onestà ed è un meraviglioso trionfo dell'arte di arrangiarsi. Questo oggetto merita un tributo.

Il Super Tele nasce nella mente di un industriale del giocattolo della Valle Padana nel luglio 1972. L'idea base era quella di ottenere un oggetto in grado di resistere ad una pressione di circa 0,8 atmosfere una volta gonfiato d'aria, sfruttando la minore quantità possibile di materiale. Ciò è stato reso possibile dalle prime applicazioni pratiche di tessuti plastici basati sul nylon, grazie ai quali è stato possibile arrivare ad uno spessore di circa 1,2 mm. Figlio degli anni '70, il Super Tele è stato inizialmente prodotto in tinta unita ma è presto passato ad un disegno stampato a pentagoni neri, il quale seguiva in maniera rozza ma efficace l'abitudine che si stava consolidando in quegli anni a produrre palloni secondo lo schema -oggi diremmo classico ma allora era una novità- degli esagoni bianchi intervallati ai pentagoni neri. E infatti i primi palloni (veri) con questo disegno apparvero ai mondiali Messico '70.

Ma torniamo a noi. Il Super Tele si affermò e dilagò per tutti gli anni '70 e '80, e tuttora viene posto in commercio con lo stesso nome commerciale, presentato al pubblico in una sottile reticella come mostra l'immagine sopra. Già il nome, Super Tele, è un capolavoro: associa l'aggettivo super, derivato da superiore , che sembrerebbe connotare la migliore qualità del modello al cospetto di un'eventuale modello base al sostantivo tele che é legato ad una volontà di associare il concetto di pallone a quello di televisione o forse telecomunicazione in senso lato, per sottolinearne la modernità. Come è facile intuire il Super Tele non è una versione migliorata di un modello Tele "normale", anche perché per fare qualcosa di peggiore ci si sarebbe dovuti impegnare davvero a fondo. La sfera è quasi sempre stampata in modo approssimativo, con i pentagoni neri buttati a casaccio su un fondo a tinta unita che rimanda cromaticamente ad un universo di colori fastidiosi e sfacciati come solo negli anni '70 ci si poteva permettere. Oltre che la dicitura "Super Tele" è riportata spesso la frase "Made in Italy", che fa veramente disonore al nostro sistema industriale; anche se proprio per questo il pallone è comunque apprezzato dalle organizzazioni non governative impegnate nella lotta contro lo sfruttamento del mondo minorile nei paesi del Terzo Mondo. In alcuni modelli tardi è stata addirittura aggiunta la scritta "rigonfiabile". Praticamente è una presa dei fondelli, a causa del fatto che non è mai esistito a memoria d'uomo un Super Tele che si sia sgonfiato per cause naturali e non è mai esistito in natura un essere umano che abbia perso tempo a rigonfiare una cosa il cui costo era di poche lire superiore a quello dell'aria in esso intrappolata.

Il Super Tele aveva dal canto suo un costo irrisorio che lo faceva amare sia da chi non pretendeva un buon prodotto sia da chi pur potendo permettersi un pallone migliore non voleva rovinare una buona sfera in partite di scarso valore, optando su qualcosa di più entry level. E veramente il Super Tele è qualcosa di entry level, pur essendo nato in un'epoca in cui entry level era un termine insensato. Il suo terreno naturale è sempre stato quello dei campetti di periferia in cui mandrie intere di bambini e ragazzi si sfiatavano per pomeriggi su partite di valore effettivo nullo ma di altissimo valore simbolico. Le madri preferivano i Super Tele perché eminentemente economici e perché, dall'alto della loro naturale apprensione per le gesta dei pargoli, erano sicure che una pallonata in faccia di Super Tele non avrebbe fatto male a nessuno. E avevano ragione.

Il Super Tele dominò per tempo anche tutte quelle sedi di gioco, come i marciapiedi e le spiagge, in cui la presenza di altri individui estranei al gioco rendeva inadatto il ricorso ad un pallone più duro: sulle spiagge è ormai sparito a causa del dilagare di mode tipo quella del fitness e quella del beach volley, per tacere dei racchettoni.

Ad ogni modo la sua gestibilità, il livello di palleggio, la stabilità aerodinamica erano tutte meno che zero, ed intuire una traiettoria di un Super Tele scaraventato in avanti era praticamente impossibile, e a tutt'oggi richiede l'impiego di elaboratori sofisticati che allora non erano disponibili. Nel gioco a terra si rivelava scadente ma non insostenibilmente pessimo, però tendeva a graffiarsi facilmente se sollecitato da attriti, e si bucava con nulla. Infatti poi la maggior parte dei Super Tele, menomati da questo handicap della facile perforabilità del guscio, hanno vita brevissima.

Ma non per questo noi dimentichiamo il Super Tele: amico dei bambini, dei giovani, dei cazzari che a tutt'oggi sono presi dalla voglia di tirare due calci un pomeriggio d'estate. Idolo delle mamme avare, dei nonni costretti a comprare sempre qualcosa ai nipotini, dei papà che odiano l'idea di buttare soldi in un pallone di cuoio sapendo che il figlio tanto lo perderà comuque. E' sopravvissuto all'invenzione di materie sintetiche migliori, agli anni delle consoles di videogiochi, agli anni della consapevolezza ed ai terribili anni Novanta, alla scomparsa del senso aggregativo dei bambini d'oggi, agli anni del glamour e a quelli del minimal chic. Ne avremo ancora per molto.


(Alvise Marinetti)

giovedì 13 settembre 2007

Nadia Comaneci

La "stellina" di Montreal 1976, l'atleta poco più che bambina che stupì e commosse il mondo per la sua bravura e la sua personalità è ancora oggi uno dei personaggi più celebri della storia degli sport olimpici, inevitabile una sua citazione ogni volta che si passino in rassegna le grandi competizioni sportive a cinque cerchi.Proveniente da un paese del blocco sovietico come la grande Olga Korbut, dominatrice della precedente rassegna olimpica di Monaco di Baviera, la romena Nadia Elena Comaneci nasce a Onesti il 12 Novembre 1961 da Gheorghe e Stefania-Alexandrina che presero il nome da certa Nadezhda, eroina di un film russo.

I suoi futuri allenatori Marta e Bela Karolyi capirono subito che quella bambina avrebbe dato tutto per la ginnastica quando, durante una ricerca di talenti in una scuola, molte bambine alzarono la mano per manifestare il proprio amore per questo sport. Ma Nadia saltò anche in piedi urlando "Io! Io!".Dopo aver disputato la prima gara nazionale a 9 anni nel 1970, vince i primi titoli assoluti del suo paese nel 1971 e 1972, nonché la prima gara internazionale nel 1971 a Lubiana.Nel 1975 - a soli 14 anni - vince addirittura i Campionati Europei nel concorso generale individuale, nel volteggio, nelle parallele e nella trave; è medaglia d'argento nel corpo libero.Questi risultati le portano una tale notorietà che l'agenzia di stampa Associated Press la nomina nientemeno che Atleta dell'Anno.

Nemmeno l'ambiente e le pressioni olimpiche intimidiscono la ragazzina romena che si presenta inevitabilmente a Montreal tra le favorite, riportando trionfalmente tre ori nel concorso generale individuale, nelle parallele e nella trave, nonché il bronzo nel corpo libero.Durante l'evento canadese Nadia segna anche un record che da solo la consegnerebbe alla leggenda olimpica, e cioè il primo voto "10" della storia a cinque cerchi ottenuto la prima volta il 18 Luglio, altre 2 volte il 19 Luglio, altre 2 volte ancora il 21 Luglio, e addirittura ancora altre 2 volte il 23 Luglio per un totale di 7 volte nelle diverse competizioni disputate. Lo "score" totale a Montreal registra tre ori, un argento e un bronzo.

Tornata in patria, la libellula romena diviene la più giovane cittadina del suo paese ad essere insignita della medaglia d'oro di Eroe del Partito Socialista, mentre la CBS sbarca ad Onesti per girare un programma speciale di un'ora che diventerà un successo nel prime time della rete televisiva americana.Dopo altri due "10" ottenuti a fine anno nella Chunichi Cup in Giappone, Nadia vive un brutto momento sia personale a causa del divorzio dei genitori, sia sportivo poiché venne allontanato il suo allenatore Karolyi. Nonostante gli onori, i banchetti e la celebrità Nadia si sente abbandonata, ingrassa e tenta il suicidio bevendo della candeggina.

I risultati agonistici però sembrano miracolosamente non risentirne, poiché nel frattempo agli Europei del 1977 a Praga è sempre protagonista nonostante la squalifica del team romeno per aver abbandonato la competizione in segno di protesta verso i giudici la costringa a restituire l'oro vinto alla trave. Le rimangono comunque altri due ori e un argento.Nel 1978, nonostante le difficoltà, la nostra riporta comunque un oro e due argenti agli Europei di Strasburgo, mentre dopo il ritorno del fido Karoliy tre ori e un bronzo sono suoi agli Europei del 1979, più un altro oro ai Mondiali dello stesso anno a Fort Worth negli USA. Ormai non più atleta bambina, Nadia lascia la scena olimpica a Mosca nel 1980 - per gradire - con altri due ori e due argenti.Il 1981 è il suo ultimo anno di vittorie, con cinque ori alle Universiadi tenutesi nel suo paese, prima di annunciare il suo ritiro ufficiale a 22 anni nel 1984.

Gli anni successivi di Nadia sono piuttosto turbolenti, e ruotano intorno all'ingombrante figura di Nico, il figlio del dittatore Nicolae Ceaucescu. Può darsi che inizialmente l'atleta abbia accettato le attenzioni e i privilegi del regime - che necessitava di un'immagine vincente e pulita come quella della Comaneci, nonché quelle personali del viziato rampollo del Conducator romeno. Fatto sta che queste cominciano a diventare insostenibili e nel Novembre 1989 la Comaneci riesce a raggiungere l'Ungheria, e di là l'Ambasciata Americana a Vienna dalla quale ottiene subito asilo politico negli USA grazie anche all'aiuto del misterioso Constantin Panait, il quale riesce a estorcergli danaro e forse anche altro prima che Nadia riesca a liberarsene e stabilirsi in Canada con un rugbista romeno - morto purtroppo annegato non molto tempo dopo - e la moglie.

Nel frattempo però una luce si illumina nella vita della ex bambina prodigio: il re-incontro con il suo vecchio collega americano Bart Conner le dona finalmente un po' di stabilità affettiva e personale. Dopo una visita insieme a lui in Romania, i due decidono di sposarsi il 26 Aprile 1996 nel paese della ginnasta.Oggi Nadia è portavoce ONU nonché direttrice di una scuola di ginnastica in Oklahoma insieme al marito.


(Stefano Vigorelli)

martedì 11 settembre 2007

Pierluigi Marzorati nella Hall of Fame della FIBA

Domani, 12 settembre 2007, a Madrid, Pier Luigi Marzorati verrà inserito ufficialmente nella Hall of Fame della FIBA. Un riconoscimento di grandissima importanza che premia un campione che, per 23 stagioni, 5 decadi consecutive e 693 presenze di serie A, ha giocato sempre con la stessa maglia, quella della Pallacanestro Cantù.

Una carriera professionistica iniziata nel 1969 che lo ha portato a vincere in Italia, in Europa e nel mondo. Il suo palmares è ricchissimo: 2 Scudetti, 2 Coppe dei Campioni, 2 Coppe Intercontinentale, 4 Coppe delle Coppe, 4 Coppe Korac, 1 Oro Campionati Europei ’83, 3 Bronzi Campionati Europei (’71, ’75, ’85), 1 Argento Giochi Olimpici ’80. Uomo record della Pallacanestro Cantù con le sue 23 stagioni, 693 presenze e 8.659 punti.

Marzorati, che proprio domani festeggerà il suo 55esimo compleanno, è stato il simbolo e la bandiera della Pallacanestro Cantù nel mondo tanto che la scorsa stagione, in occasione del 70esimo anniversario della società, è stato scelto come uomo immagine della società, simbolo di un basket che oggi è raro vedere, fatto di valori ed attaccamento alla maglia. Ciò che Pier Luigi Marzorati lo scorso anno ha fatto è qualcosa di grandioso ed unico. A 54 anni, è sceso in campo a 15 anni di distanza dal ritiro. Ha indossato nuovamente la maglia della Pallacanestro Cantù ed ha giocato la prima partita di campionato stabilendo un primato e diventando così l’unico giocatore di basket professionistico ad aver giocato per cinque decadi consecutive con la stessa maglia nel massimo campionato nazionale.

Inoltre Marzorati ha collezionato 278 presenze in Nazionale (record di sempre) segnando 2.209 punti, ed è il giocatore di basket italiano più medagliato con la Nazionale grazie a tre bronzi ed un oro europei, ed un argento olimpico. L’inserimento nella Hall of Fame della FIBA è l’ennesimo riconoscimento ad un campione di serietà e di sport. Marzorati farà parte di un gruppo di venti persone tra allenatori, giocatori, arbitri e menzioni speciali e sarà l’unico italiano ad essere premiato.

Insieme a lui verranno inseriti nella Hall of Fame Sergei Belov, Dražen Dalipagic, Ivo Daneu, Oscar Furlong, Nikos Galis, Hortência Marcari, Ann Meyers, Amaury Pasos, Emiliano Rodriguez, Bill Russel, Uljana Semjonova, Lidia Alexeeva, Dean Smith, Togo Renan Soares "Kanela", Ranko Žeravica, Mario Hopenhaym, Ervin Kassai, Allen Rae ed un premio speciale a Borislav Stankovic, storico segretario generale della FIBA ed allenatore del primo scudetto della Pallacanestro Cantù datato 1968.

domenica 9 settembre 2007

Torre di controllo

E' la maestosa città dei palazzi barocchi e neoclassici, delle prospettive e dei canali, senza dubbio la più bella di tutta la Russia. E al contrario di altre città sovietiche, il suo sviluppo “orizzontale” non è stato deturpato dai canoni architettonici sovietici. Ma tra qualche anno, San Pietroburgo potrebbe essere dominata dal quartiere generale della Gazprom, un'affusolata torre di vetro e acciaio che le autorità russe vorrebbero alta 320 metri. La costruzione ha provocato moti di protesta degli abitanti contrari, non un evento di ogni giorno nella Russia di oggi. E ora ha preso posizione anche l'Unesco, che minaccia di depennare San Pietroburgo dalla lista delle località considerate “patrimonio dell'umanità”.

La nuova sede del colosso energetico russo – controllato dal Cremlino con il 51 percento delle azioni – verrebbe costruita a circa due chilometri dal centro cittadino, ma praticamente di fronte alla Cattedrale Smolny, lo splendido edificio settecentesco frutto dell'architetto italiano Rastrelli. Il progetto ha il beneplacito di Vladimir Putin, un pietroburghese come il numero uno della Gazprom Dimitri Medvedev e gran parte dei fedeli del presidente. La governatrice della città, Valentina Matviyenko, è anche lei per il sì. In poche parole, le autorità vogliono il “Gazoskryob” (il “grattaGaz”), come l'edificio è stato soprannominato dai suoi detrattori. Coronerebbe la volontà di prestigio del gigante energetico, simbolo del nuovo corso della Russia putiniana, che sull'abbondanza di risorse energetiche ha basato il suo rilancio dopo la crisi degli anni Novanta. L'area è già stata data alla Gazprom, che ha facoltà di svilupparla come meglio crede. “Il grattacielo sarà così alto proprio per renderlo bello e armonioso. Fosse più basso, sarebbe brutto”, ha detto Alexender Dybal, vicepresidente della sussidiaria Gazpromneft.

Gli abitanti sono divisi. In dicembre, un sondaggio locale ha evidenziato che i campi del “sì” e del “no” si equivalgono. “Questa non è architettura”, ha detto Oleg Ionissyan, responsabile del Centro per la preservazione dell'eredità culturale di San Pietroburgo. “Architettura significa adattarsi all'ambiente. Quella torre starebbe bene nella steppa o in Malaysia, ma non vicino alla creazione di Rastrelli”. Parte degli abitanti pensa che la torre sarebbe una cosa positiva per l'economia della città, altri sono preoccupati per l'impatto visivo invece. “Non è solo una divisione tra giovani e anziani. In mezzo ci sono anche considerazioni politiche”, dice Oksana Karpenko, una giovane manager di San Pietroburgo. Lo scorso marzo, nel corso di una manifestazione contro il Cremlino a cui hanno partecipato circa duemila persone, molti cartelli erano dedicati alla paura di vedere deturpata la città. Un poster della campagna per il “no” ritrae un mostro simile a Godzilla con la maglietta della Gazprom, che con la sua ombra oscura la cattedrale Smolny. La governatrice Matviyenko, vestito come un membro delle giovani milizie comuniste Komsomol, si mette sull'attenti. Nella didascalia si legge: “Gazprom disse 'Si deve fare'. La Komsomol rispose 'Sissignore!'”. Ma anche se tutti gli abitanti fossero contrari, con il nuovo sistema voluto da Putin i governatori non sono eletti: rispondono al Cremlino, da cui sono nominati. E' un'arma in meno per i critici del Gazoskryob.

Cosa possa fare l'Unesco è anche un'incognita. La settimana scorsa Marcio Barbosa, vicedirettore dell'agenzia culturale dell'Onu, ha dato un ultimatum alla Russia: consegnateci un rapporto sull'impatto culturale del progetto entro il primo febbraio 2008, o rischiate sanzioni. “Se fosse calcio, sarebbe un cartellino giallo. Se la situazione non cambia, considereremo seriamente la possibilità di inserire San Pietroburgo nella lista dei siti in pericolo”, ha detto Barbosa, prospettando come ultima opzione la perdita dello status di “patrimonio dell'umanità”. “Non siamo contrari a un edificio moderno di per sé”, Francesco Bandarin, direttore del World Heritage Center dell'Unesco. “Ma siamo fortemente contrari alla soluzione architettonica adottata: insieme a Venezia, San Pietroburgo è l'unica città europea che ha mantenuto intatto il suo paesaggio storico 'orizzontale'. Quell'edificio è troppo alto”. Il 13 settembre, Bandarin si incontrerà con gli architetti del progetto e i dirigenti della Gazprom, nel tentativo di trovare una soluzione concordata. L'Unesco non dispone di grandi mezzi di persuasione, ma Bandarin è ottimista: “I russi sono stati sempre molto sensibili su questi temi, l'opinione internazionale conta molto”. Nella storia dell'Unesco, solo in un caso – su 851 - un sito è stato privato dell'etichetta di “patrimonio dell'umanità”, in Oman. Se basterà a far desistere una Russia che negli ultimi tempi ha dimostrato più volte di non voler farsi intimidire da nessuno, si vedrà nei prossimi mesi.

(Alessandro Ursic)

sabato 8 settembre 2007

I segreti della Shoah

L'archivio segreto di Bad Arolsen renderà disponibili le schede sulla Shoah che custodisce dal 1955: 47 milioni di file, di cui un terzo è già stato digitalizzato e inviato in doppia copia al Museo dell'Olocausto di Washington e allo Yed Vashem di Gerusalemme.
Situata al centro di quelle che erano le quattro zone di occupazione e con le infrastrutture in buono stato, questa città tedesca è stata scelta per raccogliere tutti i documenti rinvenuti nei campi di concentramento dopo l'arrivo degli Alleati. Nei 26 chilometri di archivio ci sono i registri trovati negli ospedali, negli alloggi della Gestapo e negli armadi delle SS: tutte le informazioni che qualcuno ha riportato su carta. Bad Arolsen contiene i registri di morte, l'elenco degli informatori e degli arresti, le motivazioni per cui una persona si trovava nel campo e anche la lista di chi aveva deciso di collaborare per sopravvivere. Una sezione è dedicata alle cartelle cliniche degli internati, di cui si possono sapere le malattie e le malformazioni, oltre a particolari degli esperimenti medici che venivano condotti nei campi. Le SS annotavano tutto, e si può risalire anche alla vita sessuale di molte vittime: chi faceva la prostituta, chi era accusato di reati come l'incesto o la pedofilia, chi era omosessuale. Tra queste informazioni di cittadini comuni, emergono anche informazioni famose come la Schindler's list (i 1000 ebrei salvati da Oskar Schindler e raccontati da Spielberg), la scheda di Anna Frank e il Totenbuch di Mauthausen. Fino a oggi agli studiosi era vietato l'ingresso, e delle 150 mila richieste di consultazione che ricevevano all'anno solo poche erano esaudite. Per entrare a Bad Arolsen le regole sono rigide. Entrano i sopravvissuti, chi ha avuto parenti scomparsi nei lager o i loro legali, chi era residente nel Reich tra il 1939 e 1945 e chi era minorenne negli anni della guerra ed è stato separato dai genitori. Ovviamente, possono consultare solo i file che li riguardano.

Gli Alleati, alla fine della Seconda guerra mondiale, hanno affidato i documenti alla Croce rossa internazionale. Nel 1955, undici Paesi (Belgio, Olanda, Francia, Polonia, Germania, Lussemburgo, Usa, Germania, Grecia, Italia e Israele) si sono accordati per la gestione dell'archivio e hanno firmato il Trattato di Bonn, che ne ha vietato la divulgazione e la pubblicazione. Una minima parte era consultabile dalle famiglie delle vittime, il resto sotto chiave. A custodire l'archivio viene creato un organismo apposito, l'International tracking service (Its), con sede a Ginevra, e l'obbligo di avere uno svizzero alla poltrona di direttore. Nel 1999 lo stesso Its ha iniziato a prendere posizione per l'apertura dell'archivio agli studiosi. "E' giusto dare libera circolazione e libero accesso a queste informazioni", ha detto il direttore Reto Meister. Concordano gli Usa con Edward O'Donnell, il responsabile per le questioni relative all'Olocausto, che ripete in più occasioni che "Il governo Usa auspica l'apertura di tutti i documenti sulla Shoah". A opporre resistenza è più che altro la Germania: teme di dover pagare ulteriori riparazioni, vuole prima chiarire la sua posizione legale. In più, ha una legge sulla privacy molto più restrittiva di quella statunitense. Ma dopo varie consultazioni con il direttore del Museo dell'Olocausto di Washington Sara Bloomfield, il ministro della Giustizia Brigitte Zypries annuncia che la Germania ha dato il suo assenso. E il 26 luglio del 2006 il Trattato di Bonn viene modificato: i 47 milioni di file di Bad Arolsen verranno digitalizzati e trasferiti in Usa e Israele. Per ora il lavoro è stato fatto su 12 milioni di schede, una prima tranche, mentre il progetto si concluderà nel 2009.

A un anno dalla firma, a Roma non si parla di ratifica delle modifiche al trattato. Il 4 aprile del 2007, in una seduta della Camera, il deputato del Nuovo Psi Lucio Barani propone di demandare la gestione dell'archivio all'Unione europea. Ma dato che Usa e Israele non ne fanno parte, qualsiasi decisione sarebbe mutilata. Liliana Picciotto, del Centro di documentazione ebraica di Milano, ha spiegato che la reticenza dell'Italia è legata a cavilli legali. "Non teme di dover pagare nulla - ha detto - non ha coscienza delle sue responsabilità. A bloccare la ratifica sono la legge sulla privacy e il regolamento sugli archivi si stato", con cui il provvedimento dei firmatari di Bonn è incompatibile. All'articolo 122 del Decreto legislativo 42 del 21 gennaio 2004, si legge che "gli archivi storici contenenti dati sensibili sulla salute, la vita sessuale o rapporti riservati di tipo familiare possono essere aperti solo dopo 70 anni". Che dal 1955 non sono ancora passati. Quindi, nel dubbio e in buona compagnia (non hanno ratificato nemmeno Francia e Grecia), l'Italia temporeggia.

(Veronica Fernandes)

lunedì 3 settembre 2007

Alphonso Ford

Alphonso Ford nasce nel sud degli USA, a Greenwood nel Missisipi, il 31 ottobre 1971. Chi conosce la gente del profondo sud degli states ripete sempre che questa gente "dà del tu alla vita", nel senso che nonostante le difficoltà e le ingiustizie rimane fiera e dignitosa e soprattutto forte. Lo testimonia la storia dell'Alabama, dello stesso Missisipi e le storiche piantagioni di cotone di quelle parti, dove il lavoro e la vita non ti regalavano mai niente; da sempre sotto il giogo del ricco Nord degli USA, ma mai schiacciati, mai sconfitti.

Ford vive di pallacanestro sin da giovanissimo; all'università frequenta la locale Missisipi Valley State, divenendone il giocatore più rappresentativo della sua storia. Nei suoi quattro anni di college totalizza oltre 3000 punti, divenendo di gran lunga il miglior realizzatore di ogni epoca. Finito il college viene scelto dai Philadelphia 76ers al secondo giro; la scarsa visibilità del suo college di provenienza e il suo fisico "normale" purtroppo incidono sulla considerazione degli scout NBA, che non conoscendo a pieno le qualità e le possibilità di Alphonso, lo lasciano scappare nel limbo della CBA, la seconda lega cestistica americana. Una storia comune a molti talenti americani.

Alphonso allora decide di cercare la fortuna in Europa, giocando in diversi campionati, spagnolo, turco e greco. La svolta arriva nel 1999/2000, quando Ford è nel roster del Peristeri Atene, squadra impegnata nell'Eurolega. Fonzie irrompe nel palcoscenico europeo divenendo il capocannoniere della manifestazione più prestigiosa per club con circa 26 punti di media. La sua prima grande occasione (giunta inspiegabilmente a 30 anni) la ha nel 2001/02, all'Olympiakos Atene, una delle squadri più forti di Grecia e d'Europa. Alphonso Ford impressiona, è un atleta di lusso per il basket europeo, uno che fa da solo una squadra. Anche nella stagione con i "diavoli" di Atene si conferma topscorer dell'Eurolega con 21.1 punti di media e con la conquista della coppa di Grecia (inutile dire che Ford fu il miglior marcatore della finale con 24 punti).

L'anno successivo l'emergente Monte Paschi Siena decide di puntare al vertice italiano ed europeo allestendo una grande squadra; la stella su cui si punta è Alphonso Ford. Assoluto dominatore e leader della squadra, diviene la migliore guardia della serie A e trascina Siena ad una prima storica semifinale scudetto. In Europa la stagione è ancora più esaltante; Siena raggiunge le final four di Barcellona e cede solo per due punti nella semifinale tutta italiana con la Benetton. Per il terzo anno di seguito Ford si laurea miglior marcatore della manifestazione; per Siena diventa un idolo.

La stima nei suoi confronti non si affievolisce nemmeno quando nell'estate del 2003 Alphonso passa a Pesaro, nella nuova Scovolini Pesaro di Melillo. Raggiunge una finale di Coppa Italia, conquista la qualificazione per la prossima Eurolega. In campionato dopo un'ottima regular season la Scavo giunge stanca ai playoff e cede nella semifinale a Siena. Ford gioca la sua ultima partita ufficiale il 29 maggio 2004, proprio contro la sua ex squadra. Sempre ai vertici, leader indiscusso della squadra, in estate Pesaro gli propone il rinnovo contrattuale. Fonzie tentenna, molti pensano che abbia offerte da altre squadre.
La dura realtà emerge il 26 agosto 2004, dopo che Alphonso aveva appena messo firma sul rinnovo; scrive una lettera commovente alla società ed ai tifosi, una lettera di un uomo fiero e straordinario, mai fuori dalle righe: "Cari amici sono nella sfortunata posizione di dover annunciare che non sarò in grado di disputare la stagione 2004-2005 con la Scavolini. Purtroppo le mie condizioni di salute non mi consentono più, a questo punto, di competere come un atleta professionista. In questo momento sono veramente grato a tutti voi e a tutti gli allenatori, compagni di squadra, tifosi, arbitri e dirigenti che, nel corso di tutti questi anni, mi hanno dato l'opportunità di competere nello sport che ho amato di più. Per quanto riguarda il mio club, la Scavolini Pesaro voglio di cuore ringraziare ogni persona dell'organizzazione, i miei compagni di squadra, i miei allenatori e i nostri grandi tifosi. Voglio che ognuno di voi continui ad avere fede. Siate forti e combattete duro. Il mio cuore sarà sempre con tutti voi".

Da ben sette anni Ford combatteva contro la leucemia, per tutto questo tempo ha deliziato i parquet di Europa con le sue giocate. Oggi proviamo a pensare che Alphonso abbia fatto tutto questo pur essendo malato, pur debilitato. Una lezione unica, irripetibile. Alphonso Ford muore solo 9 giorni dopo quella lettera, nella notte del 4 settembre, in un ospedale di Memphis. Pesaro, Siena e tutto il basket italiano piangono la morte di questo eroe dello sport moderno; lontano dai riflettori, dai vizi e dall'arroganza di altri ben noti sport, una lezione di coraggio, determinazione, di amore per la vita che non scorderemo.