domenica 23 settembre 2007

Una questione di razza

Studenti bianchi e neri con vite separate, cappi che penzolano dai rami a mo' di minaccia, pestaggi organizzati degli appartenenti all'altra razza, giurie monocolore che emettono sentenze controverse. Nell'abisso tra le due verità – una bianca e una nera – in cui è sprofondata Jena, 3.500 abitanti tra i boschi della Louisiana, gli Stati Uniti stanno rivivendo le atmosfere degli anni Sessanta e le battaglie del movimento per i diritti civili degli afroamericani. Un clima culminato in una manifestazione di decine di migliaia di persone, calate su questa piccola città del “profondo Sud” statunitense per chiedere una giustizia equa, a prescindere dal colore della pelle.
Al centro della storia ci sono sei studenti di liceo afroamericani. Lo scorso 4 dicembre, i ragazzi hanno picchiato uno studente bianco che aveva preso in giro uno di loro, vittima qualche giorno prima di un pestaggio da parte di altri bianchi. Le tensioni a Jena erano alte dall'inizio di settembre, quando alcune matricole afroamericane della Jena High School “osarono” sedersi all'ombra di un albero dove per tradizione si riunivano solo gli studenti bianchi. Il giorno dopo, dai rami di quell'albero penzolavano tre cappi. Il preside della scuola raccomandò l'espulsione dei tre ragazzi bianchi autori del gesto, ma il consiglio scolastico non lo ascoltò e chiuse il caso sospendendo i responsabili per tre giorni. Gli studenti afroamericani protestarono e si rivolsero al procuratore distrettuale Reed Walters, che non gradì il clamore intorno a quella che definì “una bravata innocente”. E agli studenti riuniti – secondo i neri rivolgendosi a loro – disse: “Vedete questa penna? Con un colpo di questa posso porre fine alle vostre vite”.

Caso chiuso ma solo sulla carta, mentre a scuola la vita procedeva tra sguardi in cagnesco e provocazioni sparse, con studenti bianchi e neri sempre più divisi, in una città popolata all'85 percento da bianchi. Il 30 novembre, le fiamme appiccate all'edificio principale della high school invelenirono ulteriormente il clima; ancora oggi non si conosce il colpevole, ma tutti pensano che sia stato “l'altro”. La sera successiva, due zuffe tra bianchi e neri si svilupparono all'esterno di una festa. Il giorno dopo, nel negozio di un distributore di benzina, scoppiò una lite tra un bianco presente a quel party e un gruppo di studenti neri. Il ragazzo tirò fuori un fucile dalla sua auto e minacciò gli afroamericani. Nella colluttazione uno di loro, Robert Bailey, riuscì a impossessarsi del fucile e se lo portò a casa. La polizia locale indagò sulla zuffa. Come risultato, Bailey fu accusato di furto d'arma, rapina e disturbo della quiete pubblica; il ragazzo bianco fu prosciolto. Un altro fatto vissuto come un'ingiustizia.

Così, quando lo studente Robert Barker – non uno di quelli che appese i cappi all' “albero dei bianchi” – si prese a male parole con altri sei afroamericani della high school, per lui finì male. Quelli che poi sarebbero diventati i Jena Six lo lasciarono agonizzante sul terreno. Fu portato in ospedale e dimesso dopo due ore, con la faccia gonfia ma capace di tornare a casa con le sue gambe, tanto che poi alla sera partecipò a una riunione a scuola. Inizialmente, i sei assalitori furono accusati di semplice aggressione. Ma poi il procuratore Walters alzò il tono, trasformando i capi di imputazione in “tentato omicidio”: un'accusa che potrebbe tenerli in carcere per oltre trenta anni. E' iniziata così una battaglia legale ancora in corso: i Jena Six erano tutti minorenni al momento del pestaggio, ma per la legge della Louisiana i maggiori di 15 anni vanno processati come gli adulti per questo tipo di reato. Mychal Bell, l'unico dei Jena Six con precedenti penali, è stato trovato colpevole – da una giuria di sei persone tutta composta da bianchi – di “aggressione aggravata” (cioè quella perpetrata con un'arma, nel suo caso le scarpe da tennis usate per dare calci a Barker), e ieri avrebbe potuto essere condannato a 22 anni di reclusione. Avrebbe, perché nel frattempo è intervenuta una corte di appello che ha bloccato tutto, sostenendo che il ragazzo dovrebbe essere giudicato da un tribunale minorile.
A livello giudiziario, il caso non è finito. La serie di ricorsi, ultimo quello del procuratore distrettuale, continuerà a lungo. Ma la storia è diventata un caso nazionale. Jesse Jackson e Al Sharpton, i due reverendi icone dei diritti degli afroamericani, l'hanno paragonata alle marce per i diritti civili in Alabama. Sono nati movimenti popolari per chiedere la fine delle discriminazioni razziali nel sistema giudiziario. La campagna per i Jena Six è fatta anche di video su YouTube, e la petizione a loro favore ha raccolto 345mila firme. Il cantante David Bowie ha donato 10mila dollari per le spese legali dei sei ragazzi. Sui blog gli americani si dividono, facendo riemergere rancori e stereotipi: a chi protesta contro la mano pesante della giustizia nei confronti dei neri, alcuni rispondono facendo notare che dopotutto un'aggressione organizzata rimane un atto grave, e il “sei contro uno” sarebbe un indice della “mentalità da gang” degli afroamericani. Il posto dove è iniziato tutto, “l'albero dei bianchi”, non c'è più, è stato tagliato. Ma a Jena, e non solo, i semi dell'odio girano ancora.
(Alessandro Ursic)

Nessun commento: